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Smarter & Inclusive Cities: tecnologie, collaborazioni e prospettive future

Smarter & Inclusive Cities” è un corso realizzata da Arup, TalTech e Climate-KIC in collaborazione con l’iniziativa M4EG, sostenuta dall’Unione Europea e dall’UNDP. Il tema generale è il potenziamento delle città attraverso l’adozione di strumenti digitali, metodologie partecipative e programmi di inclusione sociale. L’obiettivo consiste nel promuovere nuovi modelli di crescita urbana che tengano conto della varietà delle comunità locali, con un’attenzione specifica a efficienza, sostenibilità e uguaglianza di opportunità, offrendo esempi operativi e indicatori di performance per i dirigenti, cittadini e per chiunque voglia approfondire queste dinamiche.

Smarter & Inclusive Cities
Smarter & Inclusive Cities: Tecnologie, Collaborazioni e Prospettive Future

Smarter & Inclusive Cities: Sfide Locali e Globali

Le trasformazioni digitali, centrali per il concetto di Smarter & Inclusive Cities, hanno aperto prospettive inedite di miglioramento, mettendo a disposizione piattaforme, app e soluzioni orientate a una gestione più efficace di servizi pubblici e infrastrutture. L’idea di rendere le città “smart” trova una forte connessione con l’obiettivo di includere in questo processo tutte le componenti della popolazione, dalle fasce più giovani a quelle più anziane, riconoscendo che persone con disabilità e minoranze incontrano spesso barriere e limitazioni maggiori nell’accesso agli strumenti tecnologici. Il documento “Smarter & Inclusive Cities” evidenzia come il 66% della popolazione mondiale sia connessa a Internet, mentre in Europa si registra una media di circa l’89%. Questa discrepanza suggerisce la necessità di linee guida e interventi che riducano il divario digitale, altrimenti destinato ad accentuare disparità economiche e sociali.


Gli approfondimenti contenuti nello studio ricordano che il 69% degli uomini nel mondo accede a Internet, contro il 63% delle donne, e che la percentuale di residenti in aree urbane connessi alla rete è maggiore rispetto a quella delle zone rurali. Tale gap digitale non è solo geografico ma anche generazionale, dal momento che il 75% dei giovani tra i 15 e i 24 anni utilizza la rete, dieci punti percentuali in più rispetto alla media delle fasce d’età restanti. Diventa evidente che le nuove tecnologie possono fungere da catalizzatore sia di sviluppo sia di marginalizzazione, a seconda di come sono progettate e implementate. Questo porta a riflettere sull’importanza di costruire servizi digitali accessibili, in grado di colmare differenze di genere e di provenienza socioeconomica, tenendo conto delle competenze effettive e dei rischi di esclusione.


L’esperienza di alcune realtà urbane conferma che il semplice impiego di sensori e soluzioni high-tech non garantisce da solo miglioramenti nelle condizioni di vita dei residenti. Il caso di Songdo in Corea del Sud, concepita come luogo ipertecnologico e a bassissimo impatto ambientale, ha mostrato come la ridotta adesione della popolazione locale possa vanificare gli obiettivi iniziali. Allo stesso modo, Santander in Spagna ha introdotto un vastissimo numero di sensori, ma si è trovata a dover gestire un’intensa mole di manutenzione e problemi di privacy dei dati. Da questi esempi negativi, l’analisi proposta da “Smarter & Inclusive Cities” ricava l’importanza di mettere la persona al centro, con processi partecipativi fin dalla fase di progettazione. La tecnologia non dovrebbe essere l’unico driver di sviluppo, ma uno strumento per affrontare problemi reali, dall’inquinamento atmosferico all’accesso ai servizi di base come l’istruzione e la sanità.


Se si desidera rendere una città inclusiva e intelligente, occorre dunque considerare un approccio olistico, dove la dimensione sociale e quella economica dialogano con quella digitale, nella prospettiva di costruire una città incentrata sui bisogni delle persone. Ciò implica coinvolgere i residenti nelle fasi decisionali, stimolare partnership con università, startup, aziende locali e associazioni del territorio, e sviluppare metodologie di analisi dei dati che tutelino la riservatezza e i diritti fondamentali dei cittadini.


Smarter & Inclusive Cities: partecipazione e inclusione digitale

Le strategie di inclusività proposte da “Smarter & Inclusive Cities” puntano su un elemento chiave: l’engagement della comunità. Le esperienze di Rotterdam nei Paesi Bassi mostrano come la progettazione condivisa di soluzioni digitali possa avere impatti positivi sull’efficienza dei servizi e sui costi di gestione. Con la realizzazione dell’app Meld’R, co-progettata con i cittadini e mirata alla segnalazione in tempo reale di problemi negli spazi pubblici, il 70% delle segnalazioni totali viene ora canalizzato attraverso il canale digitale, con un risparmio di oltre 180.000 euro nel primo anno. L’amministrazione locale, dopo questo successo, ha deciso di estendere il medesimo approccio user-centric ad altre aree comunali, a conferma di quanto la co-creazione possa favorire risultati tangibili e una maggiore fiducia istituzionale.


Parallelamente, diversi governi hanno avviato programmi di formazione digitale rivolti a persone con scarse competenze informatiche, spesso donne e anziani. A Greater Manchester, nel Regno Unito, è stato avviato il Digital Inclusion Agenda con l’obiettivo ambizioso di arrivare a una copertura totale, offrendo competenze e dispositivi a chi non può permetterseli. Lo stesso spirito guida Sihanoukville in Cambogia, dove si stanno realizzando zone pubbliche con Internet gratuito e corsi di alfabetizzazione informatica per le fasce più deboli. L’iniziativa parte dal presupposto che solo eliminando le barriere di accesso alle nuove tecnologie si può offrire a tutte le componenti sociali una reale opportunità di partecipazione, incrementando così la vitalità economica e sociale di un territorio.


Le esperienze di Tartu in Estonia mostrano come un progetto di bilancio partecipativo, definito con procedure inclusive e piattaforme digitali facili da usare, possa rendere i cittadini protagonisti del processo decisionale. Nel caso specifico, la municipalità ha stanziato una quota delle risorse (circa 1% del budget investimenti) per progetti proposti direttamente dai residenti. Questo meccanismo, denominato Participatory Budgeting, ha generato azioni concrete come rinnovamenti urbani e servizi aggiuntivi, riducendo inoltre la distanza tra Comune e popolazione. L’interesse principale sta nel fatto che la popolazione locale, informata e coinvolta, si sente maggiormente responsabile del risultato finale, e ciò favorisce una gestione più efficiente delle risorse.


Da non sottovalutare, nel contesto delle Smarter & Inclusive Cities, i rischi di esclusione derivanti da un eccessivo affidamento ai soli canali digitali. L’approccio sostenuto dai ricercatori di “Smarter & Inclusive Cities” prevede di mantenere formati ibridi per l’erogazione dei servizi, consentendo un accesso fisico alle informazioni e un supporto in presenza per coloro che non possiedono abilità tecnologiche adeguate. Questa forma di doppio binario risulta essenziale per garantire la continuità dei servizi durante la transizione digitale, evitando che alcune categorie di utenti (come gli anziani o chi ha esigenze speciali) rimangano escluse. La partecipazione e la co-creazione assumono così una connotazione concreta e propositiva, in cui i processi di sviluppo urbano vengono costruiti insieme alla comunità, invece di limitarsi a offrire soluzioni calate dall’alto.


Smarter & Inclusive Cities: sicurezza e accesso digitale

Un fattore centrale che emerge dal documento “Smarter & Inclusive Cities” riguarda l’importanza delle infrastrutture digitali e della loro corretta gestione. Non basta coprire un’ampia fetta del territorio urbano con connessioni a banda larga o 5G, occorre pensare a come rendere queste infrastrutture accessibili e affidabili, in linea con standard di sicurezza robusti. L’Unione Europea, per esempio, punta a coprire tutte le aree popolate con reti Gigabit entro il 2030, ma il raggiungimento di tale traguardo richiede un dialogo costante fra enti pubblici, aziende di telecomunicazioni, università e associazioni della società civile, allo scopo di anticipare eventuali criticità legate ai costi o alla sostenibilità nel lungo periodo.


Amsterdam, nei Paesi Bassi, fornisce un esempio significativo di come la questione della gestione dei dati debba essere affrontata con procedure definite e trasparenti. La città ha sviluppato uno standard sul trattamento dei dati di mobilità (City Data Standard for Mobility – CDS-M), finalizzato a usare le informazioni prodotte dai cittadini senza ledere la privacy e i diritti di chi si sposta quotidianamente in città. Tale approccio coniuga l’esigenza di ottimizzare i flussi di traffico con la volontà di non trasformare i residenti in “fornitori passivi di dati”. Simili iniziative dimostrano come definire chiare regole di governance digitale sia indispensabile per allineare gli obiettivi economici e di innovazione urbana con i principi etici e legali.


A fianco della gestione dei dati, “Smarter & Inclusive Cities” sottolinea la centralità della cybersecurity. Nel periodo compreso tra luglio 2021 e giugno 2022, il 24% degli attacchi informatici registrati a livello globale si è rivolto verso l’amministrazione pubblica. Gli enti locali, sempre più digitalizzati, si trovano così esposti a minacce che possono bloccare interi servizi, causando danni reputazionali ed economici. È perciò fondamentale integrare la sicurezza informatica nella pianificazione strategica, a cominciare dall’addestramento del personale, per arrivare a protocolli di emergenza che garantiscano la continuità operativa. Helsinki, attraverso l’innovazione company Forum Virium, e Singapore, grazie a investimenti mirati sulla protezione dei dati, rappresentano due esempi virtuosi di come si possano conciliare le esigenze di una città connessa con quelle della tutela dei sistemi informativi. In questo contesto diviene fondamentale una forte leadership delle istituzioni, capace di promuovere politiche di responsabilizzazione degli operatori e di informazione pubblica mirata, evitando che la crescente digitalizzazione produca falle di sicurezza difficili da contrastare.


Il passaggio a città più inclusive e intelligenti, sul piano infrastrutturale, prevede dunque un processo di rinnovamento che abbraccia aspetti tecnologici, normativi e socioculturali. Vanno studiati modelli di proprietà dei dati che garantiscano la trasparenza e rispettino la libertà individuale, con un occhio di riguardo agli standard aperti e all’interoperabilità tra diversi sistemi. La collaborazione tra pubblico e privato diventa essenziale: le aziende di telecomunicazioni, ad esempio, hanno un interesse economico nell’espandere le reti, ma necessitano di linee guida adeguate e incentivi per assicurare l’accessibilità ai segmenti più vulnerabili della popolazione. Sotto questo profilo, l’analisi del documento mette in luce come la “città intelligente” non sia un mero insieme di dispositivi interconnessi, ma un ecosistema di decisioni e responsabilità condivise.


Smarter & Inclusive Cities: innovazione nella governance urbana

L’inclusione e l’intelligenza in ambito urbano si traducono anche in una governance collaborativa. Secondo i ricercatori, le municipalità hanno il duplice compito di governare e di coordinare un quadro multi-attore, avviando processi di consultazione, cooperazione e scambio di informazioni. Il documento “Smarter & Inclusive Cities” descrive come Bristol, nel Regno Unito, abbia adottato il cosiddetto One City Approach, un modello che riunisce realtà pubbliche e private, università e organizzazioni della società civile per realizzare obiettivi comuni. Sono stati creati tavoli tematici su temi quali trasporti, sanità e sviluppo economico, facendo sì che la responsabilità non ricada unicamente sull’ente comunale.


Per concretizzare un approccio inclusivo occorre agire su più fronti. Da un lato, è fondamentale elaborare strategie di medio-lungo termine che includano la riduzione delle emissioni di carbonio, la valorizzazione culturale e la crescita delle competenze digitali. Dall’altro, bisogna predisporre procedure amministrative che facilitino l’avvio di progetti pilota, come minipiloti rapidi, spesso dal costo contenuto (nell’ordine di qualche decina di migliaia di euro), in grado di testare idee innovative in contesti circoscritti. Alcune città nordeuropee, come Turku in Finlandia, hanno applicato questa logica per ridurre il traffico automobilistico in zone centrali, sfruttando sistemi di telecamere intelligenti per analizzare i flussi di veicoli. L’approccio sperimentale su piccola scala permette di valutare costi e benefici senza compromettere l’intero sistema urbano.


Un ulteriore passaggio chiave consiste nella definizione di Key Performance Indicators (KPI). Non basta enunciare obiettivi, occorre misurarli in modo chiaro e coerente. Gli indicatori possono riguardare molteplici dimensioni: la riduzione dei consumi energetici, la percentuale di rifiuti riciclati – Ljubljana, ad esempio, è riuscita a superare il 63% di rifiuti correttamente differenziati grazie a un sistema di smart waste management che utilizza sensori e ottimizza i percorsi dei mezzi, affiancando a queste tecnologie costanti campagne informative rivolte ai cittadini – l’aumento di persone che adottano mezzi di trasporto green, la diffusione di progetti di co-housing o la creazione di servizi sociosanitari digitali dedicati a fasce fragili. Vienna, con la sua Smart City Strategy, dimostra come un monitoraggio regolare spinga l’amministrazione a rivedere periodicamente le proprie politiche, producendo rapporti di valutazione in cui i risultati vengono confrontati con gli obiettivi previsti. Questa mentalità orientata all’analisi dei dati favorisce la correzione tempestiva delle azioni e il continuo miglioramento delle iniziative. Le città che si avventurano in processi simili devono tuttavia fare i conti con la complessità istituzionale, la mancanza di fondi strutturali adeguati e, a volte, con la resistenza culturale di alcuni gruppi sociali. È qui che emerge l’importanza della leadership politica, capace di creare una visione condivisa ma anche di sostenere percorsi di formazione e partecipazione. Se la governance non riesce a adattarsi e a coinvolgere la cittadinanza, resta il rischio di generare interventi isolati, difficili da scalare o integrare in maniera organica. Nel quadro delineato dallo studio, appare ormai indispensabile un coordinamento intersettoriale, così da mettere in dialogo settori solitamente separati come trasporti, edilizia, welfare e innovazione digitale.


Smarter & Inclusive Cities: progetti e opportunità di sviluppo

Dall’analisi delle iniziative introdotte nei vari contesti urbani, risulta evidente come l’adozione di logiche agili e sperimentali possa generare benefici estesi. Il concetto di living lab, ad esempio, definisce spazi fisici o virtuali dove pubblica amministrazione, centri di ricerca, privati e cittadini si confrontano per individuare soluzioni in tempo reale. Alcuni di questi laboratori promuovono challenge specifiche, come l’abbattimento delle barriere architettoniche per le persone con disabilità, oppure il miglioramento della qualità dell’aria attraverso meccanismi di monitoraggio e riduzione delle emissioni in specifici quartieri.


Il percorso di Tartu per incentivare l’uso della bici pubblica o quello di Narva, sempre in Estonia, che ha misurato il benessere urbano tramite il Well-being Score, mostrano come un’idea apparentemente limitata possa creare un effetto a catena. Quando un progetto raggiunge risultati soddisfacenti, si passa alla fase di upscaling: si estende la sperimentazione ad altre aree cittadine, si coinvolgono ulteriori partner, oppure si replicano le soluzioni in contesti geograficamente diversi, adattandole ai relativi vincoli legislativi e culturali. I meccanismi di espansione o replica sono cruciali per passare da micro-interventi, magari poco visibili, a una visione di sistema in grado di ridisegnare servizi chiave come mobilità, gestione rifiuti, illuminazione pubblica o reti energetiche.


Tuttavia, non tutti i progetti sperimentali giungono a conclusioni soddisfacenti. L’insuccesso, spesso, è parte del processo di apprendimento e andrebbe considerato un prezioso strumento per correggere la pianificazione. A volte occorre integrare competenze ulteriori o rivedere totalmente l’approccio. Helsinki, per esempio, sperimenta costantemente minipiloti e, quando non funzionano, utilizza i risultati negativi per migliorare i bandi successivi, puntando su un assetto agile in cui gli errori non sono una sconfitta, bensì un passo verso il perfezionamento delle politiche pubbliche.


Guardando al panorama internazionale, emergono casi di sfide comuni. Nel novembre 2021, UN-Habitat e il governo svedese hanno lanciato la Climate Smart Cities Challenge, un programma internazionale rivolto a quattro città: Bristol (Regno Unito), Curitiba (Brasile), Makindye Ssabagabo (Uganda) e Bogotà (Colombia). Il punto di forza di queste iniziative sta nella condivisione di pratiche e competenze. Trasferire un prototipo da una località all’altra non è sempre lineare, per via di regolamenti differenti e condizioni socioeconomiche peculiari. Tuttavia, l’opportunità di creare network di città che condividono esperienze consente un rapido avanzamento collettivo, oltre a un sensibile abbattimento dei costi di ricerca e sviluppo.


La prospettiva futura, come evidenziato più volte nel documento “Smarter & Inclusive Cities”, vede una sempre più stretta collaborazione tra livelli di governo locale, organizzazioni internazionali (come l’UNDP) e investitori privati pronti a scommettere su soluzioni capaci di combinare profitto e impatto sociale. Saranno cruciali la formazione di dirigenti e funzionari che sappiano gestire progetti digitali complessi, la presenza di comunità e associazioni capaci di partecipare ai processi decisionali e la costruzione di infrastrutture solide che favoriscano la connettività su larga scala.


Conclusioni

I risultati che emergono da “Smarter & Inclusive Cities” invitano a riflettere in modo realistico sulla convergenza fra tecnologie digitali, inclusione sociale e gestione urbana. I dati presentati non esauriscono la complessità del tema, ma forniscono un quadro chiaro di quanto le città abbiano già sperimentato e di quanto ancora rimanga da fare per rendere i territori luoghi più vivibili, sostenibili e accessibili. Attori pubblici e privati stanno già collaborando allo sviluppo di piattaforme di e-governance, servizi di co-progettazione e metodologie di analisi dei dati, mentre l’avanzamento di pratiche come i bilanci partecipativi o i living lab rende meno teorico il coinvolgimento dei cittadini.


Altre tecnologie similari, già mature e diffuse, si intrecciano con progetti di monitoraggio ambientale o con sistemi di trasporto ecologico. L’innovazione, in quest’ottica, non consiste solo in servizi più rapidi o in una sensorizzazione capillare, ma nel saper tenere insieme dimensioni apparentemente distanti, come l’efficienza amministrativa, la tutela della privacy, la riduzione delle disuguaglianze e la sostenibilità di lungo periodo. Per imprenditori e dirigenti aziendali, questa prospettiva rappresenta un’opportunità per sviluppare modelli di business cooperativi, fondati su investimenti con ricadute sia economiche sia sociali. Uno sguardo alle sfide globali, dai cambiamenti climatici alla robotica urbana, conferma che solo chi riuscirà a integrare creatività e pianificazione strategica potrà mantenersi competitivo in un contesto ormai interconnesso. Ecco perché la collaborazione di enti internazionali, municipalità, imprese e cittadini resta la strada privilegiata per progettare città davvero inclusive e intelligenti, facendo in modo che i benefici dello sviluppo tecnologico non restino appannaggio di pochi, ma diventino risorse collettive per una migliore qualità della vita.


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