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Nuove prospettive per la competitività europea: energia, innovazione e filiere industriali integrate – Rapporto Mario Draghi

Immagine del redattore: Andrea ViliottiAndrea Viliotti

“The Future of European Competitiveness - SEPTEMBER 2024”, a cura di Mario Draghi, Paolo D’Aprile e Pauline Rouch, con il sostegno di Commissione Europea e Parlamento Europeo, espone un piano per rilanciare la competitività europea e la crescita del continente. La relazione indaga commercio, energia, settori industriali, innovazione e difesa, illustrando misure per superare barriere strutturali e attrarre investimenti. Per imprenditori, dirigenti e tecnici, l’analisi fornisce elementi strategici: opportunità di mercato, strumenti operativi e azioni di governance volti a presidiare filiere chiave, affermare nuove tecnologie e garantire la resilienza delle supply chain.


Sintesi strategica per imprenditori, dirigenti e tecnici

Per gli imprenditori, il documento mostra un potenziale di crescita nel ridurre le frammentazioni regolamentari, potenziare le startup e valorizzare la sinergia tra università e industria. L’investimento in ricerca e sviluppo, sostenuto da capitali privati e mirati fondi pubblici, appare cruciale per competere con attori globali. Dati come i 270 miliardi di euro investiti in più dagli Stati Uniti in R&D, rispetto all’Europa, evidenziano che puntare su ecosistemi integrati può favorire la nascita di unicorni e trattenere i ricercatori più qualificati. Tenere presente il fabbisogno annuo aggiuntivo di 750-800 miliardi di euro di investimenti rappresenta uno stimolo per avviare partnership e attrarre capitali, specie nei settori digitali avanzati e nell’energia rinnovabile.


Per i dirigenti aziendali, emergono linee guida per ottimizzare l’efficienza operativa e adeguare i modelli di business al nuovo quadro competitivo. Con costi energetici che in Europa risultano mediamente superiori del 200-300% rispetto ad aree come Stati Uniti o Cina, la necessità di pianificare strategie di approvvigionamento e di integrare fonti alternative diventa decisiva. I test sulle politiche di difesa comune e sulle filiere critiche, come terre rare e semiconduttori, rivelano l’esigenza di strutturare accordi di fornitura affidabili e salvaguardare competenze locali. Numeri come il calo medio del 10-15% della produzione dei settori ad alta intensità energetica confermano l’urgenza di ridurre i prezzi dell’energia e armonizzare le tariffe.


Per i tecnici, i dati delle ricerche suggeriscono azioni concrete per potenziare i processi operativi. Le stime sull’impatto del TTF e la volatilità dei mercati richiedono competenze specifiche per integrare contratti di lungo periodo, ottimizzare l’efficienza degli impianti e introdurre tecnologie avanzate di digitalizzazione. Nel farmaceutico, i valori sul CAGR delle terapie avanzate e la crescente domanda di nuove soluzioni aprono scenari per sviluppare processi sperimentali, migliorare la sostenibilità e qualificare i sistemi di raccolta dati. Il ruolo dell’innovazione, dall’idrogeno alla medicina personalizzata, passa attraverso l’interdisciplinarità e la capacità di sfruttare sinergie tra ricerca e industria, evitando duplicazioni e lungaggini autorizzative.

competitività europea
Competitività europea

La competitività europea nel settore digitale: unire mercati e capitali di rischio

La relazione evidenzia un rallentamento della competitività europea e della produttività in settori digitali, con solo quattro delle prime cinquanta aziende tech mondiali ubicate nel continente. Questo distacco deriva da un mercato frammentato e dalla minor disponibilità di capitale di rischio, mentre negli Stati Uniti il sistema dei venture capitalist risulta più strutturato. La difficoltà di unificare requisiti burocratici in Europa incide sul costo d’avvio di startup innovative: chi desidera crescere oltre una certa soglia spesso trasferisce il quartier generale oltreoceano, dove trova condizioni finanziarie più favorevoli.


Il documento insiste sulla necessità di integrare università, imprese e investitori, giacché solo un terzo dei brevetti depositati nel sistema universitario europeo trova un uso concreto. Questa dispersione di idee penalizza la creazione di unicorni locali e favorisce la fuga di cervelli. Alcune stime mostrano come manchino reti collaborative di “open innovation” capaci di sostenere percorsi di ricerca in modo continuativo: laboratori, grandi aziende e piccole realtà potrebbero unire forze, ma la frammentazione geografica e normativa complica la formazione di cluster. Nonostante l’elevato livello accademico, l’investimento complessivo in R&D è spesso inferiore rispetto a chi opera in Paesi più coesi a livello regolamentare.


Il testo propone interventi normativi per dare alle startup una personalità giuridica europea, semplificando le procedure di insolvenza e garantendo uniformità fiscale. Strumenti come l’Unione dei mercati dei capitali vengono citati come centrali per ridurre la frammentazione borsistica e dare accesso a risorse ingenti. Per sostenere una robusta crescita, la produttività va aumentata, anche ricorrendo a nuove tecnologie che possano ridurre i costi di addestramento per l’intelligenza artificiale, oggi superiori ai 10 milioni di euro per le applicazioni di fascia alta. Investire nelle competenze professionali e manageriali, si suggerisce, è l’unico modo per trattenere i talenti e portare più brevetti in Europa.


Parallelamente, le imprese europee sono invitate a sfruttare i centri di High Performance Computing già presenti, ma spesso non utilizzati al massimo. La disponibilità di un computing di alto livello può rendere la fase di sviluppo meno onerosa, specialmente nell’elaborazione di modelli AI complessi. Banche dati coordinate e un ambiente normativo unificato assicurano che i costi di compliance si riducano e che le aziende locali non si trovino svantaggiate rispetto ai competitor esteri. In definitiva, la sezione iniziale del rapporto Draghi indica chiaramente che l’Europa deve abbracciare una visione comune, puntando su reti collaborative e su un capitale di rischio semplificato, per potersi confrontare con colossi globali e mantenere la propria sovranità tecnologica.


La posta in gioco è la credibilità del progetto di rilancio: o l’Europa consolida una piattaforma capace di assistere le imprese più promettenti, oppure il divario con le economie leader potrebbe allargarsi, penalizzando l’industria del continente. Nel lungo termine, il gap nei settori digitali e l’assenza di figure professionali specializzate potrebbero frenare la crescita, rendendo l’UE più fragile dinanzi all’espansione di player americani e asiatici. Generare un mercato interno con regole omogenee e un efficace coordinamento degli investimenti appare dunque l’unico mezzo per tornare competitivi su scala globale, evitando la dipendenza da fonti di finanziamento esterne e dalla definizione di standard provenienti dall’estero.


Costi energetici e competitività europea: sfide e prospettive di crescita

Sul fronte energetico, l’indagine “The Future of European Competitiveness” approfondisce l’andamento dei prezzi e l’impatto dell’incertezza sui costi di produzione industriale. I dati mostrano che i prezzi dell’energia in Europa, già prima delle crisi geopolitiche, erano sensibilmente più alti che negli Stati Uniti, in taluni casi con differenziali che sfioravano l’80% sull’elettricità industriale. La riduzione dei flussi di gas russo, poi, ha evidenziato la mancanza di un mercato energetico pienamente integrato, dove ogni Stato negozia singolarmente forniture e infrastrutture.


Durante la fase più critica della crisi energetica, numerose aziende con un elevato consumo di energia hanno ridotto la loro produzione. I forti aumenti e l'elevata instabilità dei prezzi sul mercato del gas naturale europeo, rappresentato dal TTF (Title Transfer Facility, un indice di riferimento per il prezzo del gas naturale), hanno costretto molte imprese a prendere decisioni drastiche, come la chiusura temporanea di impianti chimici e siderurgici. Nel periodo successivo alla pandemia, la domanda di energia è aumentata rapidamente, ma la competizione a livello globale per assicurarsi forniture di gas naturale liquefatto (GNL) e altre fonti alternative ha causato un ulteriore incremento dei prezzi.


Questa dinamica ha avuto un impatto significativo sulla pianificazione a medio termine di molte aziende, che hanno iniziato a valutare la possibilità di trasferire le proprie attività in aree geografiche dove i costi energetici risultano più stabili o meno inclini a variazioni improvvise. Ad esempio, un'azienda siderurgica europea potrebbe considerare di spostare parte della produzione in regioni dove il costo dell'energia è più prevedibile, come alcuni stati del Medio Oriente o del Nord America, per evitare i rischi associati alle fluttuazioni del mercato europeo.


La relazione rileva che la frammentazione regolamentare alimenta inefficienze nei mercati dei derivati energetici e agevola fenomeni speculativi. Molti contratti sono negoziati over-the-counter, con scarsa trasparenza e difficoltà di monitorare il reale impatto sulle tariffe finali. Di conseguenza, le imprese affrontano costi di hedging notevoli e restano esposte a repentini sbalzi di prezzo. Per allentare questa tensione, servirebbe una vigilanza unificata e maggiore coordinamento tra operatori, così da stabilire benchmark affidabili e ridurre la tentazione di comportamenti speculativi, che gonfiano artificialmente i costi.


Sul versante dell’approvvigionamento, il documento segnala che la spesa di import di combustibili fossili può toccare il 2,7% del PIL europeo, una cifra che si traduce in centinaia di miliardi versati all’estero. L’indebolimento della competitività industriale nasce anche dal fatto che le imprese rivali, negli Stati Uniti e altrove, godono di tariffe meno gravate da oneri fiscali e di contesti di mercato più omogenei. L’Emissions Trading System europeo, pur orientato a contenere le emissioni, incide sui costi operativi dei settori energivori. La prospettiva di ridurre progressivamente le quote gratuite e implementare il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism) dovrebbe limitare le distorsioni con i Paesi che inquinano senza pagare, ma nel breve periodo le industrie europee temono ulteriori spinte verso l’alto dei costi.


La sezione si conclude con una riflessione sulle infrastrutture e i tempi di autorizzazione: realizzare nuovi impianti rinnovabili, potenziare reti di trasmissione e costruire stoccaggi richiede procedure più spedite, senza però diminuire gli standard di sicurezza o l’attenzione agli aspetti ambientali. Si indica che per il fotovoltaico i permessi possono impiegare oltre tre anni e, per l’eolico onshore, addirittura nove. Questi ritardi rallentano la transizione energetica, mantenendo i prezzi su livelli elevati. Al tempo stesso, si ribadisce che la formazione di personale specializzato in ingegneria e manutenzione è un fattore chiave: se l’Europa intende ridurre i costi energetici, servono tecnici capaci di installare e mantenere impianti rinnovabili e reti intelligenti, pena l’incompiutezza di molti progetti ambiziosi.


Materie prime critiche: un nodo essenziale per la competitività europea

Lo studio “The Future of European Competitiveness” pone particolare attenzione all'autonomia strategica nel settore delle materie prime essenziali. L’Unione dipende in maniera consistente da fornitori esterni per elementi quali litio e terre rare, con una concentrazione cinese che in alcuni casi supera il 60%. La vicenda del gas russo ha dimostrato come un singolo taglio nelle forniture possa scatenare rialzi di prezzo e disagi nella produzione industriale. Questo apre a scenari di forte vulnerabilità: le filiere industriali legate all’auto elettrica, all’aerospazio e alle telecomunicazioni potrebbero subire danni se venisse meno la disponibilità di input essenziali.


Per spezzare questa dipendenza, la relazione suggerisce che l’Europa adotti politiche di diversificazione dell’offerta, sottoscriva accordi di fornitura stabili e mantenga scorte strategiche di materie prime cruciali. Alcuni competitor, dagli Stati Uniti al Giappone, avviano già partnership bilaterali che assicurano l’accesso alle risorse, mentre l’Europa risulta frenata dalla tendenza degli Stati membri a negoziare in modo autonomo. Per invertire la rotta, si invocano meccanismi di acquisto congiunto, seguendo la logica di un mercato di 440 milioni di consumatori che potrebbe ottenere condizioni migliori.


Un altro punto cardine è l’ammodernamento del quadro normativo che regola l’estrazione e il riciclo all’interno dell’UE. L’apertura di nuove miniere o impianti di raffinazione risente di procedure autorizzative lunghe e di vincoli ambientali che talvolta sono differenziati nei vari Paesi. Lo stesso mercato del riciclo, se fosse più armonizzato, consentirebbe di recuperare metalli e terre rare da prodotti a fine vita, evitando di dipendere esclusivamente dal materiale vergine. In tal senso, la prospettiva di un’economia circolare rivolta ai componenti high-tech rappresenta una via per ridurre la vulnerabilità, ma andrebbe sostenuta da investimenti mirati e un chiaro sistema di incentivi.


La relazione mette inoltre in guardia rispetto alla produzione di semiconduttori di fascia avanzata, dove l’Europa continua ad avere un’importanza nella realizzazione di macchinari di produzione (ASML Holding N.V), ma non possiede linee interne in grado di creare chip sotto i 22 nm su larga scala. Questa lacuna genera dipendenze da fornitori asiatici, con rischi di blocchi commerciali o dazi imprevisti. Alcune imprese europee hanno spostato la produzione in Paesi dove i costi sono minori, aggravando l’esposizione esterna. L’idea, riportata nella relazione, è sostenere la creazione di un consorzio che educhi alla costruzione di impianti strategici sul territorio continentale, anche a costo di elevati investimenti iniziali, per garantire un minimo di autonomia.


Queste dinamiche si intrecciano con la protezione delle competenze locali. La relazione non auspica un protezionismo che isoli il mercato, ma un sistema di regole che imponga joint venture obbligatorie o vigilanza speciale sugli investimenti provenienti da Paesi che non adottano gli stessi criteri di libero mercato. Con questa strategia, l’Unione potrebbe difendere il proprio know-how e offrire un argine alla concorrenza basata su pratiche di dumping o sussidi elevati da parte di governi esteri. Il testo conclude che, senza un piano d’azione coordinato per le materie prime e i semiconduttori, la competitività europea rimarrebbe fragile e il rischio di una dipendenza strutturale aumenterebbe, compromettendo la capacità di reazione alle sfide geopolitiche e industriali.


Difesa comune e competitività europea: una filiera militare ad alto impatto

La dimensione della difesa comune figura come un pilastro nell’analisi sulla competitività, perché garantire l’autonomia strategica significa anche possedere capacità militari e sistemi d’arma di nuova generazione. “The Future of European Competitiveness” registra una spesa militare mediamente inferiore al 2% del PIL negli Stati membri, cifra considerata minima in ambito NATO, con un panorama di industrie polverizzate. È noto che negli USA si adotta un’unica tipologia di carro armato, mentre in Europa se ne contano dodici, con costi di formazione e manutenzione decisamente più elevati.


A ciò si aggiunge la questione R&D: gli Stati Uniti dedicano circa il 16% del budget militare totale a ricerca e sviluppo, mentre l’Unione rimane attorno al 4,5%. Questa differenza di investimenti assottiglia la capacità europea di stare al passo su droni, AI militare e sistemi ipersonici. Lo studio segnala inoltre che il 78% della spesa per nuovi equipaggiamenti militari in Europa si è diretto fuori dal continente, spinta soprattutto da acquisti di tecnologia statunitense. Il mancato coordinamento, ancora una volta, impedisce di mettere in comune ordini e risorse, con la conseguenza di ridurre lo stimolo alla nascita di un mercato interno della difesa.


Il testo propone l’istituzione di un regime speciale di aggregazione della domanda militare, sostenuto da un bilancio ad hoc, per portare avanti progetti comuni con le principali aziende europee. Un simile percorso, se gestito con trasparenza, può rafforzare la competitività delle filiere di difesa, incrementando la standardizzazione e la produzione su larga scala. È menzionata anche l’esigenza di rispettare un vincolo di spesa militare, espresso dalla formula SpesaDifesa >= 0.02*PIL, adottata da alcuni Paesi ma non da tutti. In assenza di un impegno condiviso, il gap tecnologico rischia di ampliarsi.


L’autonomia strategica include anche lo spazio, dove l’Europa possiede programmi di navigazione e osservazione all’avanguardia (Galileo, Copernicus), ma non eccelle nel settore dei lanciatori e delle costellazioni satellitari commerciali, dominato da aziende statunitensi e asiatiche. Il testo sostiene che un Fondo Industriale Spaziale europeo potrebbe contribuire a finanziare nuovi satelliti e potenziare progetti di lancio, garantendo l’accesso ai dati sensibili e la protezione di informazioni rilevanti per sicurezza e imprese. Vista la crescente importanza delle tecnologie spaziali nella vita civile (logistica, telecomunicazioni, agricoltura di precisione), trascurare questo comparto equivarrebbe a lasciare campo libero a competitor extraeuropei.


In conclusione, la relazione sottolinea come la collaborazione industriale e la condivisione degli obiettivi di difesa non siano più un lusso, bensì una necessità per mantenere la propria influenza nel panorama globale. Una maggiore integrazione militare non si limita ad aspetti di sicurezza, ma produce ricadute positive sull’economia civile, poiché molte innovazioni, dal GPS all’informatica avanzata, nascono in ambito difensivo e poi trovano applicazioni commerciali. Allargare la scala produttiva e superare la frammentazione nazionale risulta la via maestra per rilanciare una filiera capace di generare innovazione e posti di lavoro in tutta l’Unione.


Finanza e governance: strumenti chiave per la competitività europea

Secondo il rapporto, per rilanciare la competitività europea occorrono un serio coordinamento finanziario e un cambio di direzione nella governance. L’analisi stima che si debbano investire ogni anno tra 750 e 800 miliardi di euro in più, passando da un rapporto investimenti/PIL del 22% fino al 27%. Considerato che il bilancio UE attuale, pari a poco più dell’1% del PIL complessivo, non è sufficiente a coprire questa mole di spesa, si ritiene necessario introdurre un sistema di raccolta comune di risorse, sul modello del debito condiviso.


La frammentazione dei mercati dei capitali europei rappresenta un ulteriore limite, perché i risparmi delle famiglie europee, pur essendo elevati, non confluiscono facilmente in iniziative ad alto potenziale. Il valore dei sistemi pensionistici privati statunitensi tocca il 140% del PIL, mentre in Europa si aggira intorno al 32-40% del PIL, con disparità rilevanti tra i vari Paesi membri. Ciò riduce la disponibilità di capitale di rischio sul lungo periodo. La proposta è completare l’Unione dei mercati dei capitali, uniformando regole e vigilanza, così da incentivare la circolazione transfrontaliera dei capitali. In parallelo, si ipotizza di rendere più stabile l’emissione di titoli europei, trasformando l’UE in un emittente regolare, come avviene negli Stati Uniti a livello federale.


Perché un simile piano sortisca risultati concreti, occorre promuovere contemporaneamente riforme strutturali, rivolte a elevare la produttività e ridurre i divari interni. Senza maggiore coordinamento, si rischia che ogni Paese marci secondo ritmi propri, rallentando l’efficacia degli investimenti. Il documento caldeggia la creazione di un Quadro di Coordinamento della Competitività, dove Commissione, Stati membri e imprese discutano obiettivi e risultati, superando la frammentazione che disperde fondi e rallenta la realizzazione dei progetti. Un supervisore unico per i mercati azionari, sul modello della SEC, faciliterebbe inoltre l’armonizzazione delle procedure.


La credibilità del programma di rilancio dipende anche dalla stabilità macroeconomica: un aumento degli investimenti finanzierà una crescita potenziale che, nel tempo, garantirà maggior gettito fiscale, riducendo il peso del debito. Il testo mette in guardia da ritardi nell’ammodernamento dei sistemi produttivi o nell’adozione delle tecnologie digitali più avanzate. Senza un balzo nella produttività, i livelli di spesa rischiano di diventare insostenibili. Le simulazioni mostrano, invece, che la combinazione di riforme e investimenti può innescare un circolo virtuoso, in cui l’innovazione alimenta i ricavi dello Stato e consente di proseguire nell’espansione industriale e tecnologica.


Nel quadro generale, si menziona anche l’opportunità di cartolarizzare in modo trasparente i prestiti bancari, per liberare capitale che potrebbe affluire alle iniziative di innovazione. Si sottolinea la necessità di piani condivisi per reti transeuropee, progetti di difesa e infrastrutture digitali, con un controllo centralizzato che riduca la duplicazione di finanziamenti. L’obiettivo è far sì che l’Europa non disperda le sue forze in una molteplicità di piccole azioni sconnesse, ma assuma un peso globale analogo a quello di altre grandi aree economiche, in termini di capacità di investimento e di decisione sui principali programmi di sviluppo.


Infrastrutture energetiche condivise per la competitività europea

Il rapporto Draghi sottolinea l'importanza cruciale dei prezzi dell'energia e delle infrastrutture nel contesto economico europeo. La composizione diversificata dei mix energetici adottati dai vari Stati membri, insieme alle significative differenze nei regimi di tassazione, crea disparità evidenti nei costi energetici. Senza considerare oneri aggiuntivi e accise, i costi energetici industriali in Europa potrebbero essere in alcuni casi comparabili a quelli degli Stati Uniti. Tuttavia, l'aggiunta di tasse, il sistema di scambio di quote di emissione (ETS, ossia il mercato delle emissioni di CO2), e le tariffe per l'uso delle reti di distribuzione contribuisce ad aumentare in modo considerevole il costo finale dell'energia.


Questa situazione ha due principali conseguenze. Da un lato, le imprese meno solide dal punto di vista finanziario rischiano di uscire dal mercato o di delocalizzare le loro attività verso Paesi con costi energetici più competitivi. Dall'altro lato, le aziende che riescono a rimanere operative spesso incontrano difficoltà a destinare risorse per investimenti in innovazione e sviluppo, poiché i costi fissi elevati riducono la loro capacità di spesa in altri ambiti.


La relazione fa notare come la crisi del 2022 abbia aggravato tali squilibri. La mancanza di interconnessioni in alcune aree e di rigassificatori in altre ha creato differenziali di prezzo di decine di euro per MWh tra Paesi confinanti, portando a situazioni paradossali in cui un’impresa pagava quasi il doppio dell’energia rispetto a un concorrente situato a pochi chilometri di distanza, ma oltre confine. L’assenza di un coordinamento a livello UE, con procedure rapide per realizzare nuove infrastrutture e linee di trasmissione, continua a rappresentare un collo di bottiglia.


Per rendere più stabili i prezzi, si discute l’uso di contratti a lungo termine (PPA) e CfD, ma la frammentazione delle regole nazionali riduce l’adesione. Le aziende energivore vorrebbero bloccare il prezzo dell’energia rinnovabile, ma spesso mancano i requisiti di credibilità finanziaria per stipulare accordi di lungo periodo. Alcuni Paesi, come la Spagna, hanno sviluppato un mercato dei PPA più maturo, mentre altri faticano a introdurre schemi di garanzia bancaria e supporto pubblico. L’assenza di standard comuni e la percezione di un rischio elevato frenano molte iniziative, lasciando la volatilità come fattore prevalente nella fornitura energetica.


Sul piano delle prospettive, si evidenzia che l’elettrificazione di processi industriali e l’espansione dell’idrogeno potrebbero ridurre la dipendenza dal gas, ma solo se accompagnate da un deciso potenziamento delle reti di trasmissione e stoccaggio. Nel breve periodo, però, occorre prepararsi a prezzi del gas più alti di quelli storici, specie se la domanda globale resterà vivace. La concorrenza interna all’Unione, con possibili aiuti di Stato non coordinati, rischia di accentuare le distorsioni e premiare le imprese localizzate dove i governi offrono più sussidi. La relazione propone, dunque, un maggiore allineamento delle politiche nazionali, oltre a regole comuni per la fiscalità energetica e la condivisione degli stoccaggi, per evitare fenomeni speculativi e cali di fiducia che penalizzano l’intera economia comunitaria.


In tale contesto, i tecnici del settore e i dirigenti che pianificano gli investimenti dovrebbero adottare strategie di diversificazione dell’approvvigionamento e di ottimizzazione dei consumi, ad esempio installando apparecchiature ad alta efficienza o scegliendo orari di fornitura a costi ridotti. L’introduzione di meccanismi di demand response, supportata dall’intelligenza artificiale, può rimodulare i picchi e generare risparmi significativi. Tuttavia, ciò presuppone regole di mercato uniformi, la presenza di contatori digitali e un quadro di governance che premi comportamenti virtuosi, altrimenti le singole iniziative restano settoriali e non incidono sulla struttura dei prezzi.


Industrie ad alta intensità: sostenibilità e competitività europea

Un aspetto cruciale riguarda l'impatto dei costi energetici sulle industrie ad alta intensità energetica. Settori come quello dell'acciaio, della chimica, del cemento e della carta, noti come industrie ad alta intensità energetica (energy-intensive industries, EII), rappresentano una componente fondamentale di numerose filiere produttive e contribuiscono in modo significativo al prodotto interno lordo (PIL) manifatturiero europeo. Tuttavia, i dati evidenziano un calo della produzione in molti di questi settori, attribuibile all'aumento dei prezzi del gas e dell'elettricità, oltre alla loro elevata volatilità, che rende difficile la pianificazione economica e finanziaria delle aziende.


In aggiunta, la riduzione delle quote gratuite di emissioni nel sistema ETS (Emission Trading System, un meccanismo europeo che regola le emissioni di gas serra imponendo limiti alle aziende e incentivandole a ridurre l'inquinamento) e l'introduzione del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism, un meccanismo che mira a tassare i prodotti importati in base alla quantità di emissioni di carbonio associate alla loro produzione) potrebbero aggravare questa situazione. Questi fattori, infatti, rischiano di spingere alcune aziende a delocalizzare la produzione in Paesi con costi energetici più bassi e normative ambientali meno rigorose.


La relazione riporta che, negli ultimi anni, il gas ha subito aumenti fino a triplicare i prezzi statunitensi, danneggiando in particolare la chimica, dove il gas è sia materia prima sia fonte di calore. La stessa siderurgia, che beneficia di competenze storiche e di distretti consolidati, ha sofferto la concorrenza di fornitori stranieri con input energetici più economici. Il timore di un “OPEC del gas”, in cui i Paesi esportatori coordinino le estrazioni per mantenere alti i prezzi, rimane un’eventualità che spaventa le imprese europee.


Il testo sottolinea che la riduzione delle emissioni e il ricorso a tecnologie a basse emissioni di carbonio richiedono capitali ingenti e una prospettiva decennale: molte imprese faticano a impegnarsi in progetti di transizione senza garanzie su quote ETS o meccanismi di incentivo. Alcune soluzioni, come i carbon contract for difference, potrebbero stabilizzare il prezzo del carbonio e rendere più appetibili gli investimenti in tecnologie pulite. La creazione di un sistema di “premio” per chi adotta processi a bassa emissione, garantendo un ritorno in caso di oscillazioni del mercato, offrirebbe certezze a chi investe in innovazione.

Sul piano del contesto internazionale, si osserva che le misure approvate negli Stati Uniti (come l’Inflation Reduction Act) semplificano gli investimenti in impianti energivori, includendo sussidi e procedure autorizzative più rapide. Ciò espone l’Europa al rischio di perdere ulteriormente una parte delle industrie storicamente insediate sul territorio. Non da ultimo, la filiera circolare può rappresentare un’occasione di rilancio: incrementare il riciclo di materiali come acciaio e alluminio riduce il fabbisogno di energia rispetto alla produzione primaria. Tuttavia, l’esportazione di rottami verso mercati terzi toglie all’Europa una risorsa preziosa. Incentivare la chiusura del ciclo all’interno della UE richiederebbe standard comuni e un mercato unico dei rifiuti di qualità industriale, evitando che norme divergenti fra Stati finiscano per ostacolare la circolazione di materiali recuperabili.


La conclusione del ragionamento è che la competitività di queste industrie riflette la capacità di gestire la transizione climatica in modo graduale ma efficace. Rendere più accessibili i capitali e rafforzare le reti di trasporto energetico si rivelano elementi fondamentali, così come promuovere sinergie tra i diversi settori. L’innovazione tecnologica, se non accompagnata da politiche di sostegno e da un mercato del carbonio coerente, rischia di restare allo stadio prototipale, con un impatto minimo sul reale costo dell’energia e sulle performance ambientali.


Mercato unico dell’energia: pilastro della competitività europea

Il rapporto Draghi sottolinea l'importanza delle infrastrutture nella creazione di un mercato unico dell'energia a livello europeo. Sono stati avviati progetti di interesse comune (noti come IPCEI, Important Projects of Common European Interest) e sviluppati piani decennali per l'espansione delle reti elettriche e del gas, denominati TYNDP (Ten-Year Network Development Plans), coordinati rispettivamente da ENTSO-E (associazione europea dei gestori delle reti elettriche) e ENTSO-G (associazione europea dei gestori delle reti del gas). Tuttavia, la realizzazione di questi piani procede lentamente a causa delle difficoltà nel reperire i fondi necessari e della complessità delle procedure amministrative per ottenere i permessi.

Durante i periodi di maggiore tensione nella crisi energetica, le limitazioni strutturali delle interconnessioni, spesso indicate come "colli di bottiglia", hanno causato significative differenze di prezzo dell'energia tra Paesi confinanti. In alcuni casi, queste discrepanze hanno superato i 100 euro per megawattora (€/MWh), evidenziando la necessità di migliorare l'efficienza delle infrastrutture per favorire l'integrazione dei mercati energetici.


Il documento evidenzia che un sistema efficiente dovrebbe garantire un rapido trasferimento dei flussi di energia verso le aree di maggiore domanda, evitando che le regioni con surplus rimangano isolate. Una rete integrata di questo tipo necessita di ingenti investimenti in infrastrutture come cavi, stazioni di pompaggio, rigassificatori e impianti di stoccaggio, oltre a una pianificazione coordinata tra Stati limitrofi. Il programma Connecting Europe Facility (CEF) mette a disposizione risorse finanziarie, ma numerosi progetti registrano ritardi dovuti a ostacoli burocratici e dissensi con le comunità locali. Per superare questi impedimenti, sarebbe necessario un sistema decisionale più rigoroso e l’introduzione di misure compensative specifiche, volte a facilitare l’accettazione delle opere di grande impatto.


Si insiste anche sulla questione fiscale: in alcuni Paesi, accise e tasse su elettricità e gas arrivano a pesare per il 30% della bolletta industriale, mentre in altri restano assai più contenute. Questa disparità frena la creazione di un vero mercato unico e penalizza i settori energivori situati in nazioni dove la pressione fiscale è elevata. La proposta di una graduale armonizzazione delle imposte, affiancata da forme di sostegno per le imprese maggiormente esposte al rischio di delocalizzazione, aiuterebbe ad allineare il costo dell’energia su livelli più omogenei, favorendo la concorrenza “interna” all’UE su basi più trasparenti.


Per quanto riguarda le tecnologie digitali, la relazione suggerisce un uso sistematico dell’intelligenza artificiale per gestire in modo efficiente i picchi di carico energetico, anticipare eventuali guasti e regolare l’erogazione di energia in tempo reale. Sebbene i data center e gli algoritmi di apprendimento automatico (machine learning) abbiano un elevato consumo energetico, il loro utilizzo, se coordinato con l’ampliamento delle fonti rinnovabili, può contribuire a garantire la stabilità delle reti elettriche. Tuttavia, il successo di questa integrazione dipende dalla presenza di operatori in grado di implementare strategie di Demand Side Management, cioè sistemi che permettono di ottimizzare i consumi energetici regolando la domanda in base alla disponibilità dell’offerta. Senza una regolamentazione uniforme a livello centrale, questi servizi rischiano di svilupparsi in modo disomogeneo, riducendone l’efficacia complessiva.


Il tema della sicurezza degli approvvigionamenti condivide molte affinità con quello delle materie prime critiche: senza un governo unitario, i Paesi tendono a competere tra loro per ottenere forniture a breve termine. Quando i prezzi dell'energia aumentano vertiginosamente, la corsa all'acquisto di risorse come gas o carbone tende a far salire ulteriormente i costi, generando un circolo vizioso. Una possibile soluzione, proposta nella relazione, è l'adozione di meccanismi di acquisto congiunto. Questo approccio permetterebbe di mitigare le distorsioni di mercato garantendo stoccaggi comuni di risorse energetiche e contenendo i picchi di prezzo durante i periodi di scarsità. Inoltre, viene sottolineata l'importanza di stabilire un indice di riferimento affidabile, come il benchmark ACER LNG (Associazione dei regolatori dell'energia dell'UE, riferito al mercato del gas naturale liquefatto), per legare i contratti energetici a un parametro meno suscettibile alla speculazione rispetto al TTF (Title Transfer Facility), attualmente uno degli indici principali nel mercato europeo del gas. Questo passo contribuirebbe a rafforzare la trasparenza e la credibilità del mercato energetico dell'Unione Europea.


Ad esempio, immaginando una situazione di crisi energetica in inverno, un meccanismo di acquisto congiunto consentirebbe ai Paesi membri di condividere le riserve di gas accumulate in precedenza, riducendo la competizione diretta e, di conseguenza, i costi associati. Al tempo stesso, l'adozione di un benchmark stabile come ACER LNG permetterebbe di fissare i prezzi su basi più razionali, evitando gli effetti negativi delle speculazioni di breve termine che spesso amplificano le oscillazioni di mercato.


Soluzioni finanziarie per sostenere la competitività europea

Un capitolo significativo riguarda le soluzioni finanziarie per supportare la trasformazione del sistema energetico e ridurre i costi operativi delle imprese. L’indagine mostra che la costruzione di pipeline, impianti rinnovabili e reti di distribuzione comporta investimenti molto elevati, spesso vincolati a orizzonti di medio-lungo termine. In Europa, i capitali privati disponibili non sempre trovano veicoli adeguati, complice l’assenza di una piena integrazione dei mercati. A differenza degli Stati Uniti, l’UE non ha una massa critica di fondi pensione e asset manager capaci di impegnarsi in progetti infrastrutturali su scala continentale, se non in misura limitata.


Il testo segnala anche l’eventualità di “stranded assets”: infrastrutture costruite per il gas o il carbone che, con il passare degli anni, rischiano di diventare inutilizzate a fronte di una progressiva decarbonizzazione. Ciò crea incertezza per i potenziali finanziatori, poco propensi a sostenere progetti che potrebbero non generare rendimenti sul lungo periodo. In parallelo, investire in tecnologie come l’idrogeno e la cattura del carbonio (CCS/CCU) presenta incognite sui costi futuri e la competitività su scala globale, poiché la ricerca è ancora in una fase di sviluppo.


La proposta del documento è di rafforzare la diplomazia economica dell’Europa, allargando gli accordi di fornitura e assistenza alle materie prime necessarie per la transizione, come litio e cobalto. L’Unione, una volta centrata sulla disponibilità di gas a basso costo, ora deve preoccuparsi di una fornitura stabile di componenti e materiali strategici per i progetti di rinnovabili e veicoli elettrici. Senza un approccio unificato, cresce la possibilità che singoli Paesi siglino accordi bilaterali, innescando una competizione interna poco utile.


La relazione apre anche uno scenario su come i partner esteri, specialmente Cina e Stati Uniti, potrebbero reagire all’adozione del CBAM, spingendo parte delle proprie produzioni energivore verso mercati con minori vincoli ambientali o cercando di eludere i controlli. Per massimizzare l’efficacia del CBAM, l’Europa dovrebbe intavolare negoziati volti al riconoscimento reciproco dei regimi di carbon pricing, favorendo così la decarbonizzazione a livello globale. La tematica risulta cruciale per l’industria europea, che si troverebbe avvantaggiata se anche le produzioni estere fossero soggette a oneri simili sulle emissioni, riducendo il rischio di concorrenza sleale.


In prospettiva, la relazione contempla la possibilità di un forte coordinamento europeo in cui si uniformano i meccanismi di sussidio, si definiscono aree di specializzazione e si incoraggia la creazione di grandi operatori energetici capaci di investire su larga scala. All’opposto, uno scenario di bassa cooperazione renderebbe il mercato interno frammentato e accentuerebbe le disparità di prezzo, spingendo alla chiusura di impianti in zone meno agevolate. Il percorso ideale, secondo gli autori, va nella direzione di politiche comuni, fondi europei integrati e un quadro regolamentare che premi la stabilità degli investimenti e la solidarietà fra gli Stati membri.


La filiera farmaceutica nel rilancio della competitività europea

La sezione “Pharma The Starting Point” evidenzia le sfide sempre più rilevanti che l’industria farmaceutica europea, pur forte di una lunga tradizione, deve affrontare per mantenere la propria competitività. La sezione, elaborata in collaborazione con EFPIA (Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche) e IQVIA (azienda specializzata in dati sanitari), sottolinea l'importanza di creare un mercato farmaceutico realmente integrato, promuovere incentivi per la ricerca scientifica e adottare strumenti finanziari in grado di accelerare l’introduzione sul mercato di nuove terapie, riducendo il cosiddetto "time-to-market" (il periodo necessario per portare un farmaco dalla fase di sviluppo alla sua disponibilità per i pazienti).

Tuttavia, la frammentazione normativa e operativa tra i Paesi dell’Unione Europea rappresenta un ostacolo significativo. Le aziende farmaceutiche incontrano difficoltà nell’avviare contemporaneamente sperimentazioni cliniche e procedure di registrazione in diversi Stati membri, causando ritardi nell’arrivo delle terapie più avanzate ai pazienti che ne hanno bisogno.


Ad esempio, un'azienda che sviluppa un nuovo farmaco per una malattia rara potrebbe trovarsi a dover seguire regolamentazioni diverse per ogni Paese dell’UE, con processi burocratici complessi e tempi di approvazione non coordinati. Questo non solo ritarda la disponibilità del trattamento, ma aumenta anche i costi per l’azienda, limitando la possibilità di investire in ulteriori ricerche. Un mercato unico e armonizzato permetterebbe invece di centralizzare questi processi, garantendo un accesso più rapido ed equo alle terapie innovative in tutto il territorio europeo.


Un dato cardine è che il settore farmaceutico rappresenti circa il 5% del valore aggiunto manifatturiero in Europa, con punte più elevate in alcuni Stati. La presenza di distretti specializzati e di figure altamente qualificate rende il comparto strategico sia per la crescita economica sia per la tutela della salute dei cittadini. Tuttavia, i costi di R&S continuano a salire e le imprese segnalano difficoltà a reperire fondi adeguati in un contesto caratterizzato da normative complesse e differenziate per il rimborso dei farmaci.


Le esportazioni farmaceutiche europee, tradizionalmente caratterizzate da un saldo positivo, potrebbero subire un calo a causa della crescente competizione proveniente da Stati Uniti e Asia, in particolare nei settori dei farmaci biologici e delle terapie avanzate (Advanced Therapy Medicinal Products, ATMPs), che includono terapie geniche, cellulari e prodotti di ingegneria tissutale. Secondo l'analisi delle quote di mercato e del tasso annuo composto di crescita (CAGR, Compound Annual Growth Rate), che per questi segmenti ha raggiunto livelli fino al 60% tra il 2017 e il 2022, emerge chiaramente che le aziende europee incontrano difficoltà nel tradurre le scoperte scientifiche in prodotti commerciabili. Questo limite mette a rischio la leadership europea in settori strategici e ad alta redditività.


L’armonizzazione dei trial clinici, unita a un rafforzamento del trasferimento tecnologico dalle università alle aziende, potrebbe cambiare il quadro. La relazione propone meccanismi di partenariato pubblico-privato, con i quali finanziare la fase rischiosa della ricerca, e una strategia comune per attrarre investimenti esterni. Un collegamento più stretto tra la regolamentazione dei dispositivi medici e le autorità farmaceutiche appare indispensabile, data la convergenza di farmaci sempre più complessi e apparecchi digitali. Le tecnologie di AI e analisi dei big data, inoltre, consentirebbero di personalizzare i protocolli di sperimentazione, abbreviando i tempi di ricerca. Senza un canale europeo di accesso ai dati sanitari, però, le sperimentazioni rimangono parcellizzate.


Un punto di attenzione riguarda il potenziale di creare nuovi centri di produzione di principi attivi, dopo decenni di delocalizzazioni in Asia. L’esperienza pandemica ha mostrato la criticità di dipendere da fornitori esterni per farmaci di base e vaccini. “Pharma The Starting Point” insiste sul fatto che l’Europa debba definire contratti e fondi dedicati alla produzione di medicinali essenziali, con un incentivo a localizzare parte della filiera. Ciò non va letto in chiave protezionistica, bensì come una tutela del diritto alla salute e una garanzia di sicurezza. L’industria, da parte sua, si troverebbe beneficiata se potesse operare in un quadro normativo unico, con standard condivisi per la qualità e la tracciabilità dei prodotti, facilitando anche l’esportazione.


Ricerca, brevetti e competitività europea nel settore farmaceutico

Approfondendo il discorso sulla farmaceutica, emergono aspetti legati alla capacità europea di passare dalla ricerca di base a quella applicata. Le università del continente producono un numero considerevole di pubblicazioni, inclusi contributi nelle scienze della vita, e vantano riconoscimenti internazionali. Eppure, quando si guarda ai brevetti depositati, la percentuale UE sembra in calo, mentre Stati Uniti e Cina registrano una crescita più rapida. Questa discrepanza tra pubblicazioni e brevetti suggerisce difficoltà nella fase di trasferimento tecnologico.


Il rapporto evidenzia che, per i farmaci di ultima generazione, l’ingresso sul mercato dipende in modo significativo dalla rapidità con cui vengono approvati dagli enti regolatori e dalla successiva definizione delle condizioni di rimborso da parte dei sistemi sanitari. Le procedure di Health Technology Assessment adottate dai singoli Stati membri dell’Unione Europea presentano differenze che non sempre garantiscono uniformità, spingendo le aziende a privilegiare i mercati dove possono ottenere un ritorno sugli investimenti in tempi più brevi. Questo limita lo sviluppo di leader europei nel settore e porta molte startup biotech, spesso originate da laboratori universitari, a cercare finanziamenti nei sistemi statunitensi. Con una maggiore armonizzazione, l’Europa potrebbe destinare risorse significative alla fase di crescita, riducendo il rischio che le imprese emergenti decidano di trasferirsi all’estero.


La complessità regolamentare si rivela anche nei costi e nei tempi per condurre trial clinici multinazionali. Senza procedure comuni ben definite, ogni Paese fissa propri requisiti di arruolamento e di consenso informato, provocando ritardi che pesano sulle fasi critiche dello sviluppo. Un sistema europeo unico di registrazione, con standard condivisi per la privacy e la protezione del paziente, consentirebbe di valorizzare la ricchezza e la varietà del bacino di popolazione, accelerando la raccolta di evidenze. Il testo menziona la necessità di unificare i registri sanitari, perlomeno su patologie rare e oncologia, per rendere più efficienti le sperimentazioni.


L’utilizzo di strumenti digitali avanzati e dell’analisi dei big data, come la metodologia Real-World Evidence (RWE), consente di osservare e valutare l’efficacia dei farmaci direttamente nel loro utilizzo quotidiano da parte dei pazienti. Questo approccio integra i risultati ottenuti durante gli studi clinici con informazioni provenienti dalla vita reale, come dati raccolti da cartelle cliniche elettroniche, registri di malattia o dispositivi indossabili. Per implementare tale metodologia, è indispensabile disporre di infrastrutture tecnologiche adeguate e di protocolli rigorosi per la protezione dei dati, al fine di trattare le informazioni sensibili nel pieno rispetto delle normative sulla privacy e della sicurezza informatica.

Lo studio sottolinea che, quando questi strumenti vengono utilizzati correttamente, è possibile ridurre significativamente i costi legati alla sperimentazione clinica tradizionale. Inoltre, permettono di sviluppare terapie sempre più personalizzate, adattando i trattamenti alle caratteristiche specifiche dei singoli pazienti, un approccio che rappresenta il fulcro della medicina di precisione.


Ad esempio, grazie alla RWE, si potrebbe monitorare l’efficacia di un nuovo farmaco per il diabete analizzando dati reali provenienti da dispositivi di misurazione della glicemia usati dai pazienti nella loro quotidianità. Questo consentirebbe di individuare schemi di utilizzo o effetti collaterali non emersi durante gli studi clinici tradizionali, ottimizzando il trattamento e migliorando la qualità di vita dei pazienti.


Anche i percorsi di pricing e rimborso dovrebbero riflettere l’efficacia reale del farmaco, con modelli di “pay for performance”, in cui il produttore viene remunerato sulla base dei benefici effettivamente ottenuti dal paziente. Questa trasformazione incontra resistenze, poiché impone un monitoraggio continuo e accordi complessi tra aziende e autorità sanitarie. Tuttavia, la prospettiva di condividere i rischi e premiare l’innovazione che offre reali miglioramenti clinici potrebbe far emergere un vantaggio competitivo per l’Europa, rendendola una piattaforma di lancio preferita dai produttori.


Sanità digitale e AI: opportunità per la competitività europea

La spinta alla digitalizzazione della sanità offre un margine di evoluzione rilevante al comparto farmaceutico, ma richiede un’adeguata formazione dei tecnici e un quadro regolatorio agile. Le cartelle cliniche elettroniche, i dispositivi IoT per la gestione dei parametri vitali e i software di supporto alla diagnosi generano una mole di dati che, se ben strutturata, permette di individuare correlazioni e migliorare la capacità predittiva su effetti avversi e risposte ai trattamenti. Nella relazione “Pharma The Starting Point”, si rileva che il potenziale di tali tecnologie è alto, ma non ancora pienamente espresso.


Le imprese europee si confrontano con requisiti di data protection (GDPR) che, se da un lato tutelano la privacy dei cittadini, dall’altro impongono una certa complessità nella condivisione dei dati sanitari. Ciò penalizza la creazione di database continentali di grandi dimensioni, indispensabili per l’addestramento degli algoritmi di intelligenza artificiale. L’eterogeneità delle normative nazionali sulla salute digitale amplifica il problema, rendendo complesso per un’azienda biotech o farmaceutica avviare programmi di analisi a livello multinazionale senza incorrere in tempi e costi elevati.


La relazione sottolinea la necessità di potenziare la collaborazione tra l'EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) e le autorità competenti nel settore dei dispositivi medici, con l'obiettivo di definire linee guida chiare e condivise per i software diagnostici e i dispositivi digitali connessi. Questa iniziativa si rende particolarmente urgente considerando che molti dei farmaci innovativi del futuro, come i medicinali personalizzati o le ATMPs (Advanced Therapy Medicinal Products, ovvero prodotti di terapia avanzata come terapie geniche e cellulari), saranno accompagnati da dispositivi digitali in grado di monitorare parametri clinici e trasmettere i dati in tempo reale ai medici.


Per evitare che questa evoluzione tecnologica venga ostacolata, è fondamentale fornire un quadro normativo chiaro e armonizzato. Un ambiente regolatorio confuso, con normative contrastanti o poco definite, potrebbe infatti scoraggiare le aziende dallo sviluppo di prodotti integrati, rallentando i progressi scientifici e i benefici per i pazienti. Creare un ecosistema favorevole significa permettere alle imprese di innovare in modo efficiente e sicuro, garantendo al contempo la tutela dei pazienti e il rispetto delle normative.


Ad esempio, un farmaco personalizzato per il trattamento di una malattia cronica potrebbe essere somministrato insieme a un dispositivo indossabile che misura in tempo reale parametri come la pressione arteriosa o il battito cardiaco. Se le linee guida per l’approvazione del dispositivo e del farmaco fossero divergenti o poco coordinate, le aziende potrebbero affrontare ritardi significativi nel lancio del prodotto sul mercato. Un quadro normativo unificato, invece, faciliterebbe lo sviluppo di soluzioni integrate, migliorando sia la qualità dei trattamenti sia l’efficienza del sistema sanitario.


La sezione evidenzia anche il ruolo della collaborazione con il mondo accademico. Molti algoritmi di AI, fondamentali per la scoperta di nuovi farmaci, nascono in contesti universitari o in laboratori a stretto contatto con la ricerca pubblica. Se l’Europa non dota tali centri di strumenti di supercalcolo adeguati, le scoperte rischiano di confluire altrove, dove la potenza di calcolo e il sostegno finanziario permettono di superare in modo più rapido la fase sperimentale. I costi di addestramento di modelli di deep learning possono superare i 10 milioni di euro per le applicazioni più avanzate, una spesa difficilmente sostenibile dai soli budget universitari.


Infine, l’accesso alle competenze digitali costituisce il vero fattore critico di successo per le aziende farmaceutiche che intendono abbracciare la medicina personalizzata. La relazione insiste sull’idea di costruire percorsi formativi interdisciplinari, dove i futuri professionisti apprendano la biologia, la chimica e i fondamenti dell’ingegneria del software e dell’analisi dei dati. Senza queste figure, la transizione verso un modello produttivo e diagnostico digitale rischia di rimanere parziale, lasciando il mercato europeo in affanno rispetto alle aree dove tali competenze abbondano.


Finanziamenti e governance: evoluzione della competitività europea in ambito biotech

L’attenzione si sposta sulla governance e sull’ecosistema di finanziamento delle aziende farmaceutiche e biotecnologiche. Secondo la relazione, la capacità di attrarre fondi privati e pubblici per i progetti di ricerca dipende dalla prevedibilità del quadro regolatorio e dall’esistenza di canali di venture capital specializzati. Negli Stati Uniti, aree come la Silicon Valley o Boston vantano una concentrazione di investitori pronti a scommettere su start-up biotech, mentre in Europa tale disponibilità è più scarsa e polarizzata su alcuni poli (per esempio in Germania, Francia o nei Paesi Nordici).


Un altro tassello fondamentale è l’integrazione con le piattaforme pubbliche di ricerca. L’Europa ha centri scientifici di eccellenza, ma il passaggio dal laboratorio all’impresa incontra barriere amministrative e culturali. Spesso i ricercatori pubblici non sono incentivati a creare spin-off o a collaborare direttamente con le aziende, perché temono che l’attività imprenditoriale riduca la reputazione accademica. Il documento suggerisce di ridefinire i meccanismi di valutazione e premiare la capacità di trasferire conoscenza, coinvolgendo università e istituzioni come partner privilegiati dello sviluppo di nuovi farmaci.


La frammentazione delle politiche fiscali e dei regimi di credito d’imposta per la R&S scoraggia l’insediamento di hub che coprano l’intera filiera. Un’azienda biotech che intenda localizzare ricerca, produzione e trial clinici potrebbe trovarsi a dover navigare normative molto diverse, con rischi e costi notevoli. Il rafforzamento di programmi a carattere europeo, che attribuiscano benefici fiscali armonizzati, faciliterebbe la creazione di veri cluster dove i fornitori di servizi, le aziende farmaceutiche e i centri di ricerca possano cooperare senza incorrere in duplicazioni di costi amministrativi.


La relazione menziona anche gli aspetti legati alle competenze manageriali. Avviare una biotech richiede figure professionali capaci di comprendere gli aspetti scientifici e al contempo gestire piani di business e iter autorizzativi complessi. In Europa, questa combinazione di skill non è sempre facile da reperire, inducendo imprese promettenti a migrare verso l’America. Occorrerebbe facilitare la circolazione interna dei talenti e offrire percorsi di formazione manageriale specializzati nell’ambito farmaceutico, in sinergia con le università più all’avanguardia.


Dal punto di vista delle istituzioni, il successo di questi programmi dipende dalla volontà di semplificare i processi amministrativi. Se la burocrazia rimane ridondante e i tempi di approvazione per progetti di innovazione superano i 12-18 mesi, le aziende potrebbero rivolgersi a mercati più celeri. “Pharma The Starting Point” ricorda che l’Europa, con i suoi 440 milioni di abitanti, ha dimensioni notevoli, e potrebbe essere vista come un bacino unico di domanda. Ciononostante, i comportamenti frammentati dei singoli Paesi limitano le economie di scala, generando costi extra e allungando i percorsi di rimborso farmaceutico. L’invito è quello di creare un framework stabile, entro cui investitori e imprese trovino regole chiare e uniformi.


Farmaceutica e difesa sanitaria: il ruolo strategico nella competitività europea

La proiezione geopolitica del settore farmaceutico rivela come la presenza di un’industria forte sostenga l’autonomia dell’Europa anche in campo sanitario. Le analisi passate dimostrano che, durante crisi o pandemie, un continente in grado di produrre vaccini e principi attivi sul proprio territorio evita di dover competere sul mercato mondiale a prezzi gonfiati. “Pharma The Starting Point” documenta come alcuni fattori, quali la rapidità di sviluppo e l’ampia disponibilità di siti produttivi in Europa, abbiano permesso di distribuire vaccini con efficienza, in collaborazione con produttori internazionali.


Tuttavia, questa resilienza rischia di venir meno se manca un piano strategico per mantenere e potenziare le filiere: dai farmaci essenziali di largo uso (antibiotici, analgesici) alle soluzioni ad alto contenuto tecnologico (anticorpi monoclonali, ATMPs). Quando parte della produzione viene delocalizzata in Asia, i costi di lavorazione diminuiscono, ma crescono i pericoli in caso di blocchi commerciali, come si è visto per le materie prime. Il documento raccomanda di definire strumenti di procurement congiunto a livello UE, simulando quanto fatto per l’energia o altre risorse strategiche.


In parallelo, la dimensione della ricerca militare e di difesa può intrecciarsi con il farmaceutico. Il comparto difensivo richiede, per la protezione del personale o in caso di armi chimico-biologiche, lo sviluppo di antidoti e trattamenti specifici. Sovente, tali scoperte hanno ricadute sulla medicina civile, contribuendo alla nascita di nuovi brevetti. Se l’Europa adottasse una politica di difesa integrata, si potrebbe generare un effetto volano sulle biotecnologie, con investimenti che derivano anche dai fondi destinati alla sicurezza. Questo collegamento dimostra quanto sia fondamentale non considerare i settori industriali come compartimenti stagni, bensì come parti di un ecosistema che condivide competenze e tecnologie.


Un cenno importante riguarda la diplomazia sanitaria. Negli ultimi decenni, le agenzie europee hanno promosso campagne di vaccinazione e programmi di cooperazione in diverse zone del mondo, consolidando la reputazione dell’UE come partner affidabile. Se l’industria farmaceutica europea mantenesse un ruolo di primo piano nelle innovazioni, l’UE potrebbe persino diventare un hub d’attrazione per Paesi terzi, interessati a stringere accordi commerciali e di ricerca. Nondimeno, la concorrenza di altri giganti (USA, Cina, India) sollecita ad agire con rapidità per non perdere margini di manovra nei mercati emergenti.


In conclusione, la tenuta del tessuto farmaceutico europeo passa per scelte politiche che vadano oltre i singoli Stati. L’identificazione delle linee produttive più critiche, l’adozione di fondi che assicurino la presenza di stock strategici e lo sviluppo di partenariati internazionali basati su regole condivise sostengono la capacità di risposta a emergenze future. La salute, in questa prospettiva, si configura come un asset economico e geopolitico di primo piano, la cui solidità può favorire anche le sinergie con l’industria digitale, i settori di ricerca avanzata e le iniziative di difesa europea.


Transizione verde e digitale: frontiere della competitività europea

La transizione verde e digitale riguarda trasversalmente tutto il tessuto industriale europeo. Che si tratti di energia, materiali avanzati o settori farmaceutici, l’innovazione richiesta dal Green Deal e dalle nuove direttive UE si traduce in processi produttivi più puliti e in un uso intensivo delle tecnologie digitali. “The Future of European Competitiveness” sottolinea che questa trasformazione ha un costo elevato, ma consente di creare un vantaggio competitivo se impostata in maniera sistematica.


L’abbattimento dei costi energetici e l’adozione massiccia di rinnovabili possono favorire la reindustrializzazione di alcune aree europee, purché si garantiscano infrastrutture adeguate e manodopera formata. Le aziende, dal canto loro, devono aggiornare gli impianti e rivedere i processi di filiera, considerando una maggiore interazione con fornitori e partner commerciali. Quando i Paesi terzi approcciano il mercato europeo, la relazione auspica un atteggiamento di apertura, ma anche di difesa degli standard ambientali e sociali, evitando che merci prodotte con criteri meno rigidi erodano la competitività delle imprese UE più sostenibili.


Per quanto riguarda il digitale, la necessità di competenze si fa pressante in settori come l’automotive, destinato a subire un cambiamento radicale con il passaggio ai veicoli elettrici. Le filiere che ruotano attorno alle batterie devono sviluppare competenze di chimica avanzata e analisi dei dati. Per la logistica e la robotica, l’adozione di AI e calcolo quantistico apre prospettive rivoluzionarie in termini di pianificazione e ottimizzazione. Tuttavia, i dati riportati segnalano che appena un terzo dei brevetti accademici trova applicazioni concrete, indice di una scarsa fluidità nel trasferimento tecnologico.


Anche il settore difensivo trae vantaggio da investimenti in AI, droni e sistemi di controllo automatizzati, con ricadute civili che potrebbero modernizzare la manifattura europea. Il comparto farmaceutico, integrando la modellazione predittiva e la gestione di grandi database clinici, potrebbe ridurre i costi di sviluppo. Per i dirigenti e i tecnici, questa fase richiede un costante aggiornamento e la disponibilità di infrastrutture digitali sicure. Nel quadro di cybersicurezza, l’UE punta a standard elevati di protezione, ma la frammentazione normativa rischia di rallentare la creazione di un mercato unico dei servizi digitali.


Nei prossimi anni, la convergenza fra impianti fisici e soluzioni virtuali (“gemelli digitali”) rivoluzionerà la manutenzione e l’ottimizzazione produttiva, tagliando sprechi e potenziando l’efficienza energetica. Le aziende che sapranno integrarsi in reti di fornitura e di innovazione, partecipando a cluster regionali collegati a livello europeo, saranno le prime a trarre beneficio da finanziamenti e dalle competenze distribuite. In questa visione, la digitalizzazione si pone come strumento abilitante per l’intero progetto di competitività, riducendo le asimmetrie informative e favorendo la cooperazione tra gli attori.


Formazione e competenze: pilastri della competitività europea

Uno sguardo fondamentale va rivolto all’occupazione e alle competenze, poiché l’impatto di queste riforme e investimenti risulterà concreto solo se si dispone di un capitale umano adeguato. Le ricerche condivise nel documento rimarcano che i settori tecnologici, dall’AI alla robotica fino al farmaceutico, faticano a reperire personale in Europa, pur contando su ottime università. Il disallineamento tra formazione scolastica e domanda reale di competenze tecniche e manageriali produce un collo di bottiglia che rallenta la crescita delle imprese.


Nel campo dell’energia, la costruzione di nuove infrastrutture rinnovabili, le reti intelligenti e l’installazione di impianti di accumulo richiedono elettricisti specializzati, ingegneri, tecnici di manutenzione e professionisti capaci di programmare sistemi di controllo. Il mismatch tra offerta e domanda di lavoratori qualificati rallenta i cantieri, gonfia i costi e rischia di vanificare i piani di transizione. Analogamente, nel farmaceutico, c’è urgenza di biotecnologi, data scientist e ingegneri biomedici, mentre molte università faticano a tenere il passo con i cambiamenti del mercato.


Una possibile risposta, delineata dalle ricerche, è la creazione di programmi europei di formazione continua (upskilling e reskilling), da realizzare in collaborazione con imprese e consorzi industriali. Se un tecnico ha competenze base di meccanica, si possono introdurre moduli specialistici per la robotica o l’automazione, senza obbligarlo a un percorso universitario completo. Questi corsi dovrebbero essere riconosciuti in tutti gli Stati membri, così da favorire la mobilità e l’occupabilità su scala comunitaria. Un altro aspetto riguarda gli incentivi per attrarre talenti da Paesi terzi, in settori dove la carenza è più grave, definendo visti e procedure burocratiche semplificate.


Il documento non nasconde il rischio che la transizione digitale ed ecologica abbia effetti selettivi, creando opportunità per i profili più specializzati e lasciando indietro chi non possiede competenze adeguate. Da qui la necessità di politiche di inclusione, affinché le regioni colpite dalla chiusura di attività tradizionali possano riconvertirsi, sviluppando nuovi distretti produttivi. I dati sul tasso di disoccupazione giovanile in alcune aree dell’Europa mostrano uno spreco di risorse umane che, se recuperate, potrebbero colmare almeno in parte la domanda di manodopera qualificata.


Le imprese, dal canto loro, dovrebbero assumere un ruolo più attivo, partecipando alla definizione dei programmi formativi e offrendo opportunità di apprendistato o stage. Non è raro che, nelle valutazioni degli studenti, il settore industriale appaia distante dalle prospettive accademiche, facendo perdere tempo prezioso quando si inizia la carriera. Integrare sin da subito la formazione pratica con quella teorica può accelerare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, riducendo il disallineamento di competenze. Se l’Europa vorrà competere con potenze estere, la dimensione del capitale umano risulterà cruciale nel definire i futuri equilibri economici e tecnologici.


Politiche industriali e competitività europea: un approccio sinergico

La riflessione sulle politiche industriali chiama in causa la necessità di un approccio integrato: energia, difesa, farmaceutico, high-tech. Le ricerche presentate nel documento suggeriscono che un sostegno mirato a settori strategici può innescare un effetto di traino su tutta la catena. Per esempio, promuovere la costruzione di fabbriche di semiconduttori in Europa non è solo una questione di autonomia tecnologica, ma può alimentare la ricerca nell’automotive, nella robotica e nella sensoristica avanzata.


D’altro canto, la relazione mette in guardia dai pericoli di un protezionismo eccessivo. L’Europa prospera in virtù delle esportazioni, e alzare barriere a discapito di partner commerciali potrebbe rivelarsi controproducente, generando ritorsioni e riducendo la competitività nei mercati globali. Occorre bilanciare l’apertura con la difesa di alcuni segmenti ritenuti vitali, per evitare una dipendenza unilaterale. In tal senso, gli accordi internazionali di libero scambio possono integrare clausole che tutelino la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime e favoriscano la collaborazione tecnologica.


La governance di queste strategie risiede in una cooperazione rafforzata tra Commissione Europea, Parlamento e Stati membri, che dovrebbero condividere i target di sviluppo industriale. A oggi, ogni Paese tende a proteggere il proprio distretto manifatturiero, distribuendo sussidi a livello nazionale. Ciò alimenta rivalità interne e rende il continente meno efficiente rispetto a un modello di pianificazione congiunta. Secondo il report, l’UE potrebbe spingersi verso un uso più flessibile delle regole sugli aiuti di Stato, purché finalizzato a progetti di interesse europeo, evitando che i capitali pubblici si disperdano in iniziative locali con scarse prospettive.


Alla base di tutte le riflessioni, c’è la consapevolezza che l’Europa stia attraversando una fase di transizione demografica e tecnologica. Se non si adotteranno politiche coraggiose, la crescita anemica e la perdita di posizioni di leadership potrebbero consolidarsi, lasciando il continente in una posizione di subalternità rispetto ad altre potenze. Le riforme auspicate, per quanto complesse, puntano invece a riattivare la circolazione di idee, talenti e capitali, dando slancio a un mercato interno che dovrebbe funzionare come un volano integrato.


Decarbonizzazione e resilienza: sfide per la competitività europea

La questione climatica, pur essendo un aspetto trasversale, riceve ulteriore attenzione nell’ottica della competitività. L’Europa ha fissato obiettivi di riduzione delle emissioni almeno del 55% rispetto ai livelli del 1990, e il settore industriale riveste un ruolo determinante in questa partita. Le ricerche suggeriscono che la decarbonizzazione e la competitività possono coesistere se vengono definite regole chiare e incentivi equilibrati. L’ETS, ideato per dare un prezzo alla CO2, funziona come strumento di mercato, ma necessita di adattamenti per evitare di scaricare oneri eccessivi su certi segmenti produttivi.


In parallelo, l’evoluzione delle tecnologie pulite a livello globale, come evidenziato dalla sezione dedicata alle clean tech, è già in atto: nel 2022, il mercato combinato di fotovoltaico, eolico, batterie ed elettrolizzatori ha toccato i 300 miliardi di dollari, con previsioni di superare i 600 miliardi entro il 2030. La Cina, in particolare, domina la catena di fornitura di wafer e anodi, mentre l’Europa, per non restare dipendente dall’import, deve avviare progetti di manifattura interna, almeno a copertura di una quota considerevole del proprio fabbisogno. Questo orizzonte apre opportunità di investimento e occupazione, ma solo a patto che i capitali affluiscano verso tali settori e che le procedure di autorizzazione per i nuovi impianti siano adeguate.


Come già sottolineato, la transizione verso un modello basato sull’economia circolare e sulla simbiosi industriale può contribuire in modo significativo a rafforzare la resilienza europea. Attraverso il recupero dei materiali di scarto, l’adozione di processi a ciclo chiuso e l’ottimizzazione delle filiere produttive, le imprese possono diminuire la dipendenza dalle materie prime vergini. Studi evidenziano che, per materiali come l’alluminio e l’acciaio, la rifusione permette di risparmiare fino all’80% di energia rispetto alla produzione da zero. Tuttavia, la realizzazione su larga scala di queste iniziative richiede un cambiamento profondo, sia a livello culturale sia organizzativo, reso possibile da una revisione delle normative sui rifiuti e da una maggiore uniformità nei criteri di riciclo tra i diversi Stati membri.


L’industria farmaceutica, con l’utilizzo di sostanze chimiche e acqua, è chiamata a adottare principi di sostenibilità per ridurre l’impatto ambientale e ottimizzare la gestione dei residui derivanti dalla produzione. Il report evidenzia come investimenti in questa direzione possano rappresentare un’opportunità strategica, considerando che i mercati premiano sempre di più i prodotti con un’impronta ecologica ridotta. Le aziende che si preparano in anticipo a rispettare criteri di eco-design, oltre a evitare futuri ostacoli legati alla conformità normativa, possono posizionarsi come partner affidabili, contribuendo a consolidare la reputazione europea per alti standard ambientali.


La prospettiva di una transizione verde in chiave competitiva esige una pianificazione a medio-lungo termine, che superi la frammentazione nazionale. Serve una gestione condivisa delle reti, dei mercati del gas e dell’elettricità, delle filiere di materie prime e della formazione dei lavoratori. Ogni ritardo e ogni rallentamento nella realizzazione di infrastrutture o nell’adeguamento delle normative rischia di far slittare la convergenza europea con gli obiettivi climatici e di lasciare spazio ad attori esterni, più rapidi nell’implementare soluzioni innovative.


Politiche commerciali unitarie: leve per la competitività europea

Un ulteriore capitolo riguarda le politiche commerciali e il ruolo dell’Europa nel contesto multipolare. L’Unione è da sempre un attore di primo piano nella definizione di accordi di libero scambio e nella regolamentazione del commercio mondiale. Tuttavia, gli ultimi sviluppi mostrano un incremento delle tensioni geopolitiche, con i grandi blocchi che competono su sussidi tecnologici, standard ambientali e controllo delle filiere strategiche. Se l’Europa vuole tutelare le proprie imprese, deve rafforzare la capacità di negoziazione, elaborare regole comuni sulla difesa commerciale e stringere alleanze in grado di ridurre la dipendenza dai fornitori unici.


Il documento suggerisce di intensificare i rapporti con aree in crescita, come alcuni Paesi africani, che potrebbero rivelarsi partner preziosi per l’approvvigionamento di materie prime e per il mercato delle energie rinnovabili. Allo stesso tempo, la Commissione dovrebbe consolidare i legami con il Sud-Est asiatico e l’America Latina, proponendo accordi di scambio che includano la protezione degli investimenti, la difesa della proprietà intellettuale e la cooperazione scientifica. Il tutto nella consapevolezza che la Cina resta un interlocutore imprescindibile, benché su certi temi si configuri come un concorrente che monopolizza componenti e risorse.


Sul piano interno, i meccanismi di screening degli investimenti esteri si stanno rafforzando per evitare acquisizioni ostili di imprese strategiche, ma la frammentazione rimane un problema. Gli Stati Uniti applicano normative federali piuttosto uniformi, mentre in Europa ogni Paese adotta criteri differenti di controllo, creando incertezza per gli investitori. L’adozione di linee guida comuni, come auspica la relazione, darebbe coerenza alle politiche di attrazione o di blocco degli investimenti.


La dimensione commerciale si collega anche alla questione della protezione dei dati. La futura competitività dell’Europa nei settori digitali e dell’intelligenza artificiale richiede flussi di dati internazionali sicuri. Una regolamentazione troppo rigida può ostacolare la collaborazione con partner stranieri, mentre un quadro troppo permissivo può mettere a rischio la privacy e la sicurezza. La sfida è trovare l’equilibrio che permetta all’UE di rimanere un punto di riferimento etico, senza isolarsi dall’innovazione globale.


Infine, lo studio suggerisce che sia necessario rafforzare il ruolo dell'Europa nelle istituzioni multilaterali, come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e le agenzie specializzate nei settori digitali ed energetici. Una mancata partecipazione attiva dell'Europa nella definizione di nuovi standard e regole potrebbe infatti portare a una situazione in cui il continente sarebbe costretto ad accettare decisioni prese da altre potenze. Il risultato finale dipenderà dalla capacità dell'Unione Europea di agire in modo coeso e con una visione politica comune. Tuttavia, le divisioni interne all'UE su temi legati al commercio, alla difesa e all'energia compromettono la credibilità e l'influenza collettiva, favorendo l'ascesa di altri attori globali che adottano strategie più centralizzate e coordinate.


Conclusioni

Le analisi evidenziano che l’Europa, pur partendo da basi industriali solide e da un capitale umano di alto livello, rischia di perdere competitività se non affronta con maggiore coesione alcune sfide decisive. In primo luogo, l’eterogeneità dei quadri normativi e dei mercati dei capitali, unita a differenze marcate tra gli Stati membri, frena la possibilità di investire in infrastrutture e progetti innovativi su scala continentale. Questa frammentazione si riflette su settori chiave come l’energia, la farmaceutica, la difesa e l’industria ad alta intensità, tutti ambiti in cui un indebolimento locale può avere ricadute significative sull’intero tessuto economico.


Per invertire la tendenza, emerge la necessità di un piano d’azione integrato: un mercato dei capitali più omogeneo, capace di finanziare anche iniziative ad alto potenziale; una strategia condivisa per l’approvvigionamento energetico e di materie prime, volta a ridurre dipendenze critiche; politiche industriali armonizzate, in grado di supportare tanto le grandi imprese quanto le piccole e medie realtà innovative; un rafforzamento delle competenze digitali e tecniche lungo l’intera filiera produttiva. Oltre a ciò, è fondamentale ridefinire le sinergie fra università, centri di ricerca e aziende, così da creare filiere d’eccellenza capaci di sviluppare soluzioni all’avanguardia per l’intelligenza artificiale, il cloud computing e l’industria verde.


In questo scenario, imprenditori, dirigenti e tecnici sono chiamati a un ripensamento delle rispettive aree di competenza. Gli imprenditori possono cogliere le opportunità offerte dall’idrogeno, dalle reti elettriche intelligenti e da nuovi cluster tecnologici, mentre i dirigenti devono ricalibrare strutture organizzative e processi interni, promuovendo alleanze internazionali e scambi di know-how. I tecnici, infine, potranno beneficiare di una domanda crescente di specializzazioni avanzate, contribuendo allo sviluppo di impianti e servizi più performanti.


L’approccio suggerito non si limita a un confronto con modelli extraeuropei, bensì propone di valorizzare l’ampio mercato continentale – oltre 440 milioni di persone – attraverso un’azione unitaria che comprenda riforme istituzionali, agevolazioni fiscali mirate e strumenti di garanzia pubblico-privati. Sebbene la realizzazione di queste misure richieda impegno economico e tempi lunghi, il rischio di un rinvio ulteriore comporterebbe costi ancor più alti in termini di benessere sociale e di erosione delle attuali posizioni di eccellenza.


La chiave del successo risiede quindi nel coordinamento tra Paesi, imprese e istituzioni, così da superare lo stallo generato dalle divisioni nazionali e dalla burocrazia eccessiva. Solo con un metodo condiviso, che metta in rete competenze e risorse, l’Europa potrà mantenere la promessa di uno sviluppo sostenibile e sicuro, rafforzando il proprio ruolo di attore industriale e tecnologico di primo piano a livello globale.

 

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