L'accordo tra Google e lo Stato della California, descritto da Karen Weise e Shawn Hubler nel loro articolo pubblicato sul New York Times, rappresenta un passo importante verso la salvaguardia del giornalismo locale, ma solleva questioni ben più ampie di carattere globale. Non è solo una questione californiana o americana: il rapporto tra le big tech e il mondo dell'informazione, così come le implicazioni per la democrazia e la sostenibilità dei media, ha ripercussioni su scala internazionale.
Il caso specifico evidenziato dagli autori mette in luce un modello di relazione tra stato, grandi aziende tecnologiche e media che potrebbe essere esportato e adattato a diverse realtà in tutto il mondo. La collaborazione tra Google e il governo della California, sebbene criticata da alcune fazioni come insufficiente e poco trasparente, potrebbe segnare l'inizio di una nuova fase di interazione tra il potere pubblico e privato per il sostegno del giornalismo. Tuttavia, occorre chiedersi se questo tipo di accordi, basati su contributi economici da parte delle aziende tecnologiche, siano davvero la risposta giusta a una crisi strutturale che coinvolge l'intero ecosistema dell'informazione.
Il problema non è confinato solo agli Stati Uniti. In tutto il mondo, i media locali sono stati decimati dal declino delle entrate pubblicitarie e dalla migrazione del pubblico verso le piattaforme digitali. L'enorme concentrazione del potere nelle mani di poche grandi piattaforme tecnologiche, come Google, Meta e Amazon, ha spostato il flusso delle risorse finanziarie, lasciando i media tradizionali in difficoltà. Questo squilibrio ha messo in crisi il modello di business del giornalismo, portando alla chiusura di redazioni, licenziamenti di giornalisti e, in ultima analisi, a una riduzione della pluralità delle voci e della qualità delle informazioni disponibili al pubblico.
La proposta californiana, che prevede la creazione di un fondo per la trasformazione del giornalismo, è un tentativo di tamponare queste falle. Ma è sufficiente? In Europa, l’Australia e il Canada hanno intrapreso percorsi simili, cercando di regolare il rapporto tra le piattaforme tecnologiche e i media attraverso legislazioni che impongono il pagamento delle notizie. Tuttavia, queste normative sono state accolte con resistenze e compromessi. In Australia, ad esempio, Google ha minacciato di ritirarsi dal mercato, salvo poi adottare un approccio meno conflittuale con il programma News Showcase.
Ciò che emerge da questi tentativi è che le grandi aziende tecnologiche non possono essere viste solo come partner o mecenati dell'informazione. Sono, infatti, i principali attori che hanno contribuito a destabilizzare il settore, e allo stesso tempo diventano necessari per il suo sostentamento. Questo crea una dinamica pericolosa, in cui i media possono diventare sempre più dipendenti dalle risorse fornite dalle big tech, compromettendo la loro indipendenza e la capacità di fare un giornalismo veramente libero e critico.
C'è poi un altro punto fondamentale sollevato nell'articolo di Weise e Hubler: l'uso dell'intelligenza artificiale (IA). Google ha promesso di finanziare un acceleratore di innovazione sull’IA per supportare le organizzazioni, comprese quelle giornalistiche, nell’utilizzo di questa tecnologia. Sebbene l'IA rappresenti una grande opportunità per migliorare l'efficienza delle redazioni, automatizzare i processi e analizzare grandi quantità di dati, c'è un lato oscuro che non può essere ignorato. L'uso indiscriminato dell'IA può portare a una riduzione della forza lavoro umana nel settore, peggiorando ulteriormente la crisi occupazionale del giornalismo. Inoltre, l'automazione dei contenuti potrebbe abbassare la qualità delle informazioni, riducendo la varietà e l'approfondimento delle analisi, privilegiando un’informazione più superficiale e standardizzata.
Le implicazioni globali di questi sviluppi ci portano a riflettere su quale sia il ruolo delle aziende tecnologiche nella società moderna. Se da un lato offrono soluzioni e risorse indispensabili per il futuro del giornalismo, dall'altro rischiano di monopolizzare l'intero sistema dell'informazione, accentuando disuguaglianze e potenziali conflitti di interesse. È necessario, quindi, che governi e organizzazioni della società civile lavorino insieme per trovare un equilibrio tra la collaborazione con le big tech e la salvaguardia dell’indipendenza editoriale.
Un altro aspetto globale riguarda la frammentazione dei modelli legislativi e regolamentari. Laddove la California ha scelto una via di compromesso, altri paesi potrebbero optare per approcci più rigidi o più permissivi. Ciò potrebbe creare un panorama disomogeneo, dove i media di alcune regioni del mondo sono sostenuti meglio di altri, accentuando le disparità nell'accesso a un'informazione di qualità. La creazione di standard internazionali condivisi potrebbe essere una soluzione per evitare queste disuguaglianze, ma richiederebbe una cooperazione internazionale che al momento appare difficile da realizzare.
Infine, c’è una riflessione strategica per le imprese, non solo per quelle del settore tecnologico o dell'informazione. Il crescente coinvolgimento delle big tech nel sostegno ai media pone anche questioni di governance aziendale, di etica e di responsabilità sociale. Le aziende devono interrogarsi sul loro ruolo nella società: vogliono essere semplici finanziatori, che intervengono solo quando è conveniente per i loro interessi, o vogliono assumere una leadership responsabile che aiuti a costruire un ecosistema più equo e sostenibile?
L'accordo californiano tra Google e le newsrooms, sebbene imperfetto, apre la strada a discussioni globali cruciali sul futuro del giornalismo e sulla necessità di trovare soluzioni più ampie, inclusive e sostenibili.
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