“A.I. Isn’t Genius. We Are.” di Christopher Beha, con riferimenti a Roland Barthes e Pierre Bourdieu, è apparso sulle pagine del The New York Times. L’indagine prende spunto dall’odierna discussione sui grandi modelli linguistici, mostrando come la creatività umana e l’intelligenza artificiale abbiano generato timori e speranze, sulle radici culturali che sostengono i concetti di ingegno individuale e sulla possibilità che la tecnologia possa superare il talento. L’analisi ruota intorno a una questione essenziale: quanto conta davvero l’azione dell’uomo nella nascita di soluzioni innovative, e quanto invece queste soluzioni sono espressione di processi sociali, economici e cognitivi?
Creatività umana e intelligenza artificiale: paure e potenzialità
La vicenda che vede opposti i promotori dell’intelligenza artificiale e i più critici verso questa tecnologia ha trovato uno dei suoi avvii simbolici con l’uscita di ChatGPT due anni fa. Da allora si è discusso a lungo sul rischio di perdere quel tratto peculiare di creatività che si è soliti attribuire agli individui. Alcuni paventano la fine della cosiddetta eccezionalità dell’uomo, prospettando un contesto in cui computer e algoritmi sorpassano ogni forma di immaginazione e originalità. Si teme che canzoni, dipinti, romanzi e progetti di design finiscano per essere indistinguibili da quelli creati da professionisti, segnando la scomparsa dell’umano nelle arti e nell’ideazione di nuovi concetti. Questo timore è stato alimentato da interpretazioni che esaltano troppo il potere dei modelli computazionali, ma soprattutto da una tendenza culturale a sottovalutare, in modo implicito e graduale, ciò che l’uomo sa effettivamente fare.
Per comprendere fino in fondo le cause di questa sottovalutazione, è indispensabile guardare a come, già nella seconda metà del Novecento, si sia portata avanti una decostruzione dell’idea di “autore”. Il critico Roland Barthes nel suo celebre saggio del 1967, “La morte dell’autore”, sosteneva che ogni testo era frutto di un intreccio di scritture preesistenti e che nessun individuo avesse un effettivo primato creativo. Nella prospettiva poststrutturalista, la produzione culturale viene interpretata come il frutto di dinamiche storiche, politiche ed economiche che si influenzano reciprocamente, lasciando scarsa possibilità a un autentico contributo individuale. In questa visione, l’autore appare come un mezzo attraverso il quale si esprimono idee già strutturate, ridimensionando il concetto di "genio" inteso come fonte di creazioni straordinariamente originali.
Da un lato, quindi, c’è stata la volontà di reagire a un eccesso di mitizzazione dell’arte e di chi la crea, ma dall’altro si è finiti per appiattire ogni possibilità di meraviglia, come se tutto fosse riconducibile a combinazioni e ricombinazioni di materiali culturali esistenti. Il sociologo Pierre Bourdieu, nel suo studio “Distinction” del 1979, ha insistito su come i gusti estetici siano intimamente connessi ai meccanismi di distinzione sociale e come l’innovazione artistica rientri in meccanismi di potere più che di libera espressione individuale. Egli descriveva la cultura come il regno del “capitale culturale”, con i codici dell’élite che tengono in vita determinate gerarchie e lasciano a margine tutto il resto. L’artista, secondo questa chiave, non crea dal nulla, ma risponde a precise convenzioni sociali.
Un approccio diverso, ma convergente nell’idea di ridurre l’autonomia dell’essere umano, è venuto dal materialismo neodarwiniano di Richard Dawkins. Con la teoria dei “memi”, egli ha sostenuto che le idee culturali si propagano in modo quasi meccanico. Se i geni si trasmettono attraverso il DNA, i “memi” circolano negli strati sociali, replicandosi e adattandosi in maniera competitiva. In altre parole, ogni elaborazione culturale sarebbe un semplice passaggio di contenuti preesistenti, e la mente fungerebbe da contenitore che ricicla materiali, non da fornace in cui nasce un fuoco creativo. Dentro a queste teorie, è sembrato crollare l’ultimo baluardo di eccezionalità umana, perché tutta la sfera della produzione estetica e concettuale veniva interpretata come frutto di condizionamenti ereditari o culturali.
Queste impostazioni, sebbene abbiano portato a importanti riflessioni sul ruolo della storia, dei vincoli biologici e dei contesti di potere, hanno anche generato una diffusa tendenza a trattare la creatività come un’illusione. La conseguenza è che, negli ultimi decenni, ci si è abituati a vedere il cinema, la musica e la letteratura come macrosistemi di ripetizioni. Ogni nuovo prodotto artistico diventa un remix di generi e codici del passato. Basti pensare agli universi narrativi dei fumetti, alle infinite rivisitazioni di motivi letterari, o alle continue contaminazioni tra stili musicali di epoche diverse. Su scala quotidiana, si è poi diffusa una cultura dei meme che amplifica il fenomeno: scene di film, notizie politiche, fatti di costume diventano subito materiali “riusabili”, pronti per essere distorti, rieditati e rilanciati in un flusso incessante. In uno scenario così appiattito, l’idea che una macchina possa generare testi, immagini o melodie non è più avvertita come straordinaria, bensì come la logica conseguenza di un processo già in atto, dove creatività e ripetizione si fondono e la distinzione tra nuovo e antico si indebolisce.
Con l’emergere di modelli linguistici addestrati su enormi quantità di dati, molte persone hanno iniziato a credere che la linea di demarcazione tra l’algoritmo e l’ingegno umano fosse molto sottile. Alcuni hanno gridato a una scomparsa definitiva della scintilla umana. Altri, meno allarmati, hanno ridimensionato l’influenza di questi strumenti, considerando l’intelligenza artificiale un’innovazione tecnologica rilevante, ma non il punto di non ritorno dell’umanità. Il focus, in entrambi i casi, è sulla sottovalutazione dell’uomo e di ciò che l’uomo può davvero fare. Se si parte dall’idea che la produzione intellettuale derivi soltanto dal combinare informazioni esistenti, la possibilità che un computer riproduca gli stessi meccanismi diventa perfettamente naturale. Invece, la consapevolezza della nostra capacità di creare qualcosa di autentico ci spinge a riconsiderare in profondità la relazione tra creatività umana e intelligenza artificiale, specialmente nelle invenzioni più avanzate.
Intelligenza artificiale e cultura umana
La riflessione circa l’intelligenza artificiale non riguarda soltanto gli aspetti meramente tecnologici o le questioni di lavoro, ma tocca i fondamenti stessi della cultura, della filosofia e della capacità di concepire idee inedite. Alcuni lettori potrebbero chiedersi se i sistemi di machine learning siano semplici “strumenti potenziati” o se rappresentino qualcosa di più incisivo. L’articolo da cui muove questa analisi avanza un’ipotesi: non dovremmo temere che le macchine si approprino della nostra creatività, ma piuttosto preoccuparci di quanto noi stessi abbiamo demolito l’idea che l’essere umano abbia un potenziale immaginativo non riducibile a calcoli probabilistici. Questa conclusione nasce anche da una tradizione che ci ricorda come la logica e l’estetica siano due poli di un medesimo arco di conoscenza.
Lo dimostra la storia della matematica, della filosofia e delle scienze in generale, in cui alcuni individui hanno saputo coniugare capacità analitiche e attitudini contemplative. Il recente sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale generativa rientra proprio in quella lunga traiettoria che affonda le radici nella logica formale (attraverso figure come Kurt Gödel, John von Neumann o Alan Turing) e nella creatività visionaria di programmatori e studiosi che hanno immaginato una forma di calcolo capace di esplorare vasti spazi semantici. Ogni riga di codice, ogni formula matematica o architettura di rete neurale, custodisce l’eco dell’ingegno di chi ha gettato le basi in epoche lontane. Si pensi alle geometrie di antiche civiltà, alla logica aristotelica, o alle prime macchine meccaniche progettate per il calcolo. Nulla di ciò che oggi rientra nel calderone dell’AI è nato in un vuoto di creatività: è tutto frutto di una filiera fatta di scoperte, intuizioni e scambi intellettuali fra secoli di ricercatori e filosofi.
Oltretutto, si può affermare che l’intelligenza artificiale generativa, nella sua capacità di sintetizzare testi, immagini e idee da un enorme bacino di conoscenze digitalizzate, sia lo specchio di un fenomeno più ampio: la fusione tra scienze e discipline umanistiche. In passato, abbiamo già avuto figure in grado di rappresentare questa unione. Il nome di Leonardo da Vinci è un esempio emblematico: alcuni lo collocano nella storia dell’ingegneria grazie ai suoi progetti meccanici, altri lo celebrano come pittore. Eppure, l’aspetto che più affascina è il modo in cui egli riusciva a passare dall’osservazione scientifica del mondo all’invenzione artistica, dalla pura analisi anatomica alla trasposizione pittorica. Chi osserva la fenomenologia dell’AI con uno sguardo storico potrebbe intravedere un nuovo, ambizioso tentativo dell’umanità di costruire strumenti intellettuali capaci di esplorare e unificare domini del sapere diversi tra loro.
Ciò implica riconoscere che i timori sull’eclissi del genio umano sono spesso alimentati da un fraintendimento: non è la macchina a insidiarsi nella nostra unicità, siamo noi che, da un lato, la priviamo di una corretta collocazione come prodotto dell’ingegno e, dall’altro, ci sottostimiamo come essere pensanti. Se, al contrario, riconosciamo che ogni algoritmo, ogni rete neurale e ogni modulo di deep learning derivano da complessi percorsi di elaborazione e creatività umana, allora appare chiaro come la presunta gara tra uomo e AI abbia poco senso. L’AI è un frutto collettivo, corale, che unisce la passione di fisici, ingegneri, linguisti e filosofi, così come la sfera umanistica di chi immagina soluzioni inedite per problemi antichi.
Alcuni ritengono che, dal punto di vista pratico, la crescente automazione spiazzi interi settori della conoscenza e del lavoro. In parte, questo è vero: la tecnologia modifica equilibri preesistenti, trasferisce competenze e crea nuovi spazi di innovazione. Eppure, il valore di questa metamorfosi non può ridursi a un semplice conteggio di ciò che si perde e di ciò che si guadagna, perché l’adozione su larga scala di un sistema di AI riflette sempre la tensione a saggiare i limiti del possibile. Tra i fruitori finali e gli sviluppatori esiste una catena di saperi che prosegue da tempi remoti e che si manifesta nel software dei nostri giorni, una continuità di idee che spinge avanti l’umanità.
Occorre anche considerare che l’AI non agisce in un vuoto normativo o etico. Sono gli esseri umani a impostare parametri, selezionare i dati, scrivere linee guida e definire obiettivi. La grande promessa di sistemi come ChatGPT sta anche nella capacità di sollevare interrogativi sul nostro modo di costruire la conoscenza, costringendoci a ragionare sulla provenienza dei contenuti e sull’uso che se ne può fare. Questa consapevolezza ci mostra l’AI come un interlocutore costante, ma non come un nemico. L’eco delle paure collettive si mescola al fascino di un’opera che, in fin dei conti, nasce dal medesimo spirito che ha portato alle grandi innovazioni del passato.
Genio umano e AI: una relazione in evoluzione
Per molti secoli, il concetto di genio ha rivestito un ruolo centrale nella definizione di ciò che consente la nascita di opere straordinarie. La genealogia di questa idea viene dagli antichi, quando Socrate parlava di un “daimonion” che gli suggeriva la condotta, o dai mistici cristiani che identificavano un contatto personale con il divino, o ancora dai pensatori illuministi che tentarono di secolarizzare la nozione di ispirazione. Nella visione di Immanuel Kant, la grande arte scaturiva dall’individuo capace di creare le proprie regole, non di seguire quelle già scritte. Nel Romanticismo si affermò l’immagine dell’autore che attinge dall’intuizione più profonda per realizzare capolavori, mentre la matematica veniva vista come una disciplina schematica e metodica. Eppure, lo stesso Novecento ci ha ricordato che perfino in ambiti scientifici rigorosi, come la fisica o la logica, si presentano momenti in cui lo slancio intuitivo ribalta le certezze consolidate, regalando soluzioni inaspettate.
Quest’idea del genio è stata problematizzata da più parti: i timori di venerare falsi maestri, la constatazione che i cosiddetti “grandi uomini” della storia spesso venissero sopravvalutati grazie al proprio contesto privilegiato, o che non fossero esenti da comportamenti distruttivi, hanno minato la fiducia in questa nozione. Più di recente, la scena pubblica ha esaltato personaggi come Bill Gates, Steve Jobs o Elon Musk, definendoli “geni” perché capaci di trasformare intuizioni tecnologiche in imperi economici, un’equazione che sovrappone in modo ambiguo l’idea di successo finanziario a quella di autentica innovazione. L’effetto collaterale è un ulteriore svuotamento del termine “genio”, perché lo si identifica con abilità manageriali o con forme esasperate di competitività economica.
Il punto critico, però, non è l’uso disinvolto della parola, ma piuttosto la perdita di fiducia nella possibilità che qualcuno, a volte, vada oltre lo schema, superando la mera somma di nozioni già consolidate per realizzare creazioni inedite. Qui si inserisce perfettamente la questione dell’intelligenza artificiale. Nel timore che le reti neurali superino le capacità umane, emerge una percezione di sconfitta condivisa: se siamo semplicemente sistemi che elaborano e combinano informazioni, allora non vi sarebbe alcuna distinzione tra esseri umani e macchine, le quali potrebbero addirittura prevalere in ogni ambito. È però fondamentale ribaltare questa visione, considerando che i modelli di apprendimento automatico non rappresentano una realtà astratta o indipendente, ma costituiscono il risultato concreto di un processo ingegneristico costruito grazie a un lungo percorso di impegno e lavoro umano.
Quando ci domandiamo se le macchine potranno davvero imitare la qualità più profonda dell’umanità, dovremmo recuperare la consapevolezza che gli algoritmi non sviluppano autentica ispirazione, ma eseguono schemi probabilistici. La potenza del calcolo consente variazioni e combinazioni molto ampie, e può produrre testi, immagini e suoni sorprendenti, ma il motore di queste combinazioni resta ancorato alle informazioni che forniamo. Nessuna rete neurale si è mai svegliata con la consapevolezza di porre domande esistenziali o di individuare un valore etico assoluto al di là di ciò che è stato programmato.
Questa considerazione non mira a sminuire l’AI, ma a ridefinire la scala dei ruoli. Pensare all’intelligenza artificiale come a un “nemico” della creatività è una contraddizione, perché la tecnologia incarna l’opera di generazioni di ricercatori, artisti e pensatori che hanno dedicato la vita a progettare e perfezionare meccanismi capaci di elaborare informazione. Se la paura si affaccia all’orizzonte, è perché intravediamo in questi sistemi la possibilità di competere con noi in settori che riteniamo “sacri” o comunque tipicamente umani, come la scrittura di romanzi o la composizione musicale. In realtà, quello che risuona è il timore ancestrale dell’uomo verso sé stesso: la riflessione ricade su come impieghiamo le nostre invenzioni, quali responsabilità abbiamo nel programmarle e quali obiettivi perseguiamo.
Al tempo stesso, l’AI mostra come l’essere umano, con la propria capacità di astrazione e immaginazione, possa realizzare “creature” digitali capaci di spaziare su moltissimi ambiti del sapere. Simili risultati erano esclusiva di poche figure straordinarie, come appunto Leonardo da Vinci, che tenevano insieme la matematica e l’arte, la riflessione filosofica e la capacità di creare macchine. Oggi, quell’aspirazione a unificare i saperi si manifesta nel costruire modelli generativi che attingono a ogni segmento della conoscenza disponibile. È una prospettiva che dovrebbe suscitare fascinazione più che angoscia, perché ci fa vedere quanto la mente umana, anche in modalità collettiva, riesca a concepire strutture così versatili. Se la storia ci insegna qualcosa, è che i salti in avanti della tecnologia diventano occasioni per riflettere sul nostro ruolo nell’universo. Quindi, il reale “competitor” potrebbe non essere la macchina, bensì la nostra pigrizia mentale, la nostra paura di riprendere un discorso sull’ispirazione e sullo slancio creativo che non si riduca a conti economici o semplificazioni scientifiche.
Conclusioni
Le informazioni raccolte suggeriscono una prospettiva più distesa di quanto i toni più catastrofici possano far credere. Il vero rischio non è che l’intelligenza artificiale spazzi via la nostra creatività, ma che noi rinunciamo a riconoscere la portata generativa della mente umana, finendo per delegare a macchine sofisticate anche l’ultimo barlume di curiosità. Nel quadro attuale, molte tecnologie esistono già con funzioni simili a quelle dei grandi modelli linguistici, pur senza clamore: dai sistemi di data analysis in ambito aziendale ai software di simulazione in ingegneria. Il salto evolutivo dei modelli di deep learning, se confrontato con quelli già presenti, rivela un impatto importante, ma collocabile in una lunga tradizione di conquiste tecniche.
L’aspetto cruciale sta nell’individuare le implicazioni per il mondo delle imprese e per la società: comprendere che l’AI non è né un semplificante sostituto del pensiero, né un mostro autonomo, consente a manager e imprenditori di valutare con maggior lucidità l’introduzione di certi strumenti. Ogni innovazione va governata con normative chiare, con formazione adeguata del personale e con una riflessione strategica che includa aspetti etici e culturali. Il panorama in cui ci muoviamo è ricco di tecnologie similari che affiancano le organizzazioni da anni, ma il dibattito odierno permette di raggiungere una visione più ampia e coinvolgente: chi investe in AI scopre gradualmente che dietro a un software c’è una catena ininterrotta di competenze, frutto di un’antica fusione tra matematica e spirito creativo.
In un tempo in cui si cerca di risparmiare su tutto, dal personale alla ricerca di base, diventa strategico preservare la fiamma di quell’ispirazione che ha sempre fatto la differenza fra una tecnologia soltanto replicativa e una che sia veramente utile all’umanità. Il progresso di questi modelli non chiude nessuna porta alla collaborazione tra le idee, non invalida l’arte o la letteratura, ma allarga le potenzialità di ciò che possiamo realizzare se riprendiamo a credere nella capacità di fare domande radicali. Negli scenari futuri, il confronto tra l’AI e i sistemi analoghi già in uso mostrerà forme di integrazione sempre più sofisticate, ma lascerà aperti anche nuovi dilemmi sulla natura dell’apprendimento e sul significato di “pensare”. È probabile che molte imprese si troveranno a riconsiderare i propri processi decisionali, scoprendo di avere bisogno di figure capaci di connettere i dati con la sensibilità per l’umano. Forse, in un certo senso, si tratterà di recuperare qualcosa di molto antico: un ascolto attento dell’interiorità e del contesto, per percepire quando un’intuizione merita di essere coltivata fino a diventare un’idea dirompente sul mercato.
Non si tratta di idolatrare l’AI, ma di inserirla in un quadro più ampio di creatività condivisa. A ben vedere, l’autentico valore aggiunto di questi sistemi non risiede nella perfezione dell’algoritmo, ma nella nostra volontà di riflettere, sperimentare e aprirci a quella dimensione della mente in cui l’intuizione può farsi lampo di novità. È un invito a combinare cultura scientifica e umanistica in modo non superficiale, a guardare i computer come estensioni del nostro slancio conoscitivo, non come rivali. In un mercato dove la concorrenza spinge a adottare soluzioni sempre più sofisticate, la differenza strategica potrebbe nascondersi proprio nella consapevolezza che dietro ogni riga di codice c’è la storia plurale dell’umanità che scorre, e che per compiere i prossimi passi occorre tanto rigore tecnico quanto coraggio creativo.
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