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Capacità di cyberattacco potenziate dall’AI: nuove strategie di valutazione e difesa

Le più recenti ricerche sul potenziale dell’AI generativa hanno evidenziato la necessità di studiare in modo sistematico come le tecnologie di frontiera possano cambiare il panorama delle minacce digitali, mettendo in luce le capacità di cyberattacco potenziate dall’AI. L’uso di modelli linguistici, e in particolare di approcci in grado di analizzare enormi quantità di dati in pochi istanti, sta aprendo scenari di offensiva difficilmente prevedibili con i criteri tradizionali. Ciò porta aziende e ricercatori a delineare metodi di difesa che tengano conto di un’evoluzione rapida e spesso sottovalutata.

 

 

capacità di cyberattacco potenziate dall’AI
Capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

Panoramica sulle capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

La crescente adozione di AI generativa e di modelli linguistici ha portato a una trasformazione dell’ecosistema digitale, in cui la stessa capacità di elaborare e interpretare informazioni può rivelarsi un fattore decisivo nell’equilibrio fra attacco e difesa. Il concetto di “cyberattack chain” descrive in modo lineare le diverse fasi di un attacco, dal momento in cui vengono individuate potenziali vulnerabilità fino all’esecuzione dei piani più complessi. È un approccio capace di fornire un linguaggio comune a chi si occupa di sicurezza, individuando momenti precisi in cui un aggressore potrebbe agire e un difensore potrebbe, di conseguenza, anticipare o bloccare le iniziative dannose.


Le aziende che hanno integrato sistemi di AI generativa nei propri processi difensivi hanno raggiunto nuovi livelli di automazione, introducendo algoritmi per l’analisi dei log, per l’individuazione di vulnerabilità e per l’ottimizzazione dei piani di monitoraggio. Esistono già ampie casistiche di modelli che sanno estrarre pattern di rischio o correlare segnalazioni in modo più rapido rispetto ai metodi classici. Lo scenario appare tuttavia duplice: se da un lato l’intelligenza artificiale offre strumenti efficaci per scovare e anticipare gli incidenti, dall’altro la stessa potenza di calcolo può sostenere campagne d’attacco molto sofisticate, migliorando la velocità, la scalabilità e la precisione degli aggressori.


È stata rilevata la presenza di oltre dodicimila tentativi reali di sfruttare l’AI in attacchi informatici, evidenziando ulteriormente le capacità di cyberattacco potenziate dall’AI, secondo dati raccolti da un importante gruppo di analisti specializzati in minacce su scala globale. Questo campione, che copre attività malevole in più di venti paesi, ha permesso di individuare tendenze comuni nell’uso di assistenti automatici per la stesura di codice malevolo, per le fasi di ricognizione e per il potenziamento di tecniche di ingegneria sociale.


Studi mirati hanno condotto alla definizione di sette archetipi di cyberattack chain maggiormente sfruttati da chi cerca di colpire obiettivi sensibili o di diffondere malware.

La tendenza principale consiste nell’abbassamento delle barriere di ingresso: attività complesse, un tempo riservate a gruppi ben finanziati o dotati di competenze elevate, diventano progressivamente più accessibili. L’AI favorisce infatti l’automazione di compiti che richiedevano grande esperienza, ad esempio la ricognizione su sistemi di difesa, l’elaborazione di phishing personalizzato, lo sviluppo di exploit mirati e l’analisi automatica di vulnerabilità. Chi difende i sistemi, dal canto suo, cerca di aggiornare costantemente i propri strumenti per contrastare questa escalation.


Le strategie basate su un quadro di valutazione formale consentono di capire in che misura l’uso dell’AI possa rendere più conveniente una determinata fase dell’attacco rispetto al passato. Alcune procedure, come la ricerca di falle complesse o la creazione di malware polimorfico, hanno costi alti sia in termini di tempo sia di risorse umane. Se queste fasi critiche vengono notevolmente semplificate grazie a un modello AI, l’attaccante può moltiplicare i propri sforzi e rendere le offensive più pervasive. Il tema è di particolare rilevanza per manager, dirigenti e imprenditori che vogliono comprendere i rischi effettivi di questa evoluzione e attuare adeguate strategie di protezione.


Questa prospettiva si collega naturalmente alla necessità di avere metodologie condivise, di tipo sia preventivo sia reattivo. Nella sezione seguente verrà illustrato perché una struttura gerarchica e modulare nella classificazione delle minacce aiuta a definire priorità d’investimento e a concentrare l’attenzione sulle fasi in cui l’AI offre maggiori vantaggi agli aggressori. Avere una tassonomia chiara non è soltanto un esercizio teorico: aiuta concretamente a tradurre i risultati di test di sicurezza in piani operativi di difesa, migliorando la collaborazione fra reparti tecnici, consulenti esterni e decisori aziendali.


Perché un metodo strutturato rafforza la difesa dalle capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

L’adozione di un metodo sistematico per lo studio dei cyberattacchi mira a evitare la gestione frammentaria delle minacce. Il concetto di “cyberattack chain” offre una sequenza ordinata (ricognizione, preparazione dell’arsenale, consegna del payload, sfruttamento, installazione di malware, comando e controllo, obiettivi finali) e fornisce un linguaggio comune a chi si occupa di sicurezza. Quando entra in gioco l’AI generativa, è utile capire dove gli algoritmi avanzati possano incidere in ciascuna di queste fasi.


In quest’ottica, molti laboratori svolgono prove di sicurezza per valutare se modelli linguistici siano in grado di compiere compiti offensivi, come nei “Capture-the-Flag” (CTF). Tuttavia, risultati elevati in test isolati non equivalgono automaticamente a un rischio concreto per le imprese. Diventa essenziale inquadrare le singole abilità di un modello in una catena di attacco più ampia, dove il superamento di ogni fase prepara la successiva.Per dirigenti e responsabili di sicurezza, ciò significa orientare gli investimenti sulle fasi in cui l’automazione offerta dall’AI risulta più vantaggiosa per i criminali, tagliandone i costi e i tempi. In molte attività malevole, infatti, la definizione di payload ingannevoli e le manovre di evasione possono avvantaggiarsi di algoritmi che riducono la necessità di competenze specialistiche, rendendo un attacco più veloce da portare a termine. Anche l’ingegneria sociale ne risulta potenziata: email su larga scala, siti di phishing e codice personalizzato sono tutti esempi di come l’AI possa facilitare intrusioni su misura. Di conseguenza, un framework che mappi ciascuno step critico aiuta a capire quando intervenire con misure classiche (firewall, autenticazione multifattore, patch management) e quando occorre rivedere i piani di difesa.


Strumenti come MITRE ATT&CK consentono inoltre di mappare le tattiche impiegate nel mondo reale, evidenziando i punti deboli di un sistema. Se a questi dati si affianca un’analisi dei costi di attacco, si ottiene una panoramica completa delle “colonne portanti” da proteggere per vanificare le operazioni più insidiose.


Valutare le capacità di cyberattacco potenziate dall’AI: un approccio metodologico

Per passare da un insieme di sfide isolate a una panoramica complessiva, alcuni ricercatori hanno sviluppato un quadro di valutazione che si collega alla struttura a catena di un attacco. Si parte da una grande raccolta di dati empirici, per esempio più di dodicimila casi in cui è stato registrato un tentativo di sfruttamento dell’AI a fini malevoli, e si traggono conclusioni su dove l’automazione e l’analisi predittiva abbiano portato reali vantaggi in termini di costi, velocità o successo della minaccia. Un processo di “bottleneck analysis” serve a identificare quali passaggi siano più onerosi per l’attaccante, in modo da capire in che modo l’AI possa abbattere, o meno, le barriere d’ingresso.


I risultati di questa analisi consentono di individuare fasi quali il “riconoscimento iniziale” o l’“installazione” come possibili punti di svolta, soprattutto se la capacità di generare codice o di condurre operazioni complesse aumenta notevolmente. Una volta isolate tali fasi, vengono creati test ad hoc per verificare se un modello AI, in un ambiente simulato, riduca il tempo e l’expertise richiesti per superare un ostacolo difensivo. Emerge così la differenza tra prove puramente teoriche e situazioni in cui i parametri del mondo reale — come la presenza di dati parzialmente corrotti, difese anti-bot, regole di intrusion detection — influiscono in modo determinante.


Gli esperimenti descritti in alcune ricerche hanno per lo più adottato ambienti CTF, “capture-the-flag”, dove la sfida consiste nel trovare una “bandiera” nascosta attraverso procedure di exploit, scansioni di rete o bypass di controlli. Per evitare di sovrastimare le capacità effettive dei modelli, le prove più sofisticate includono limitazioni di contesto, rallentamenti artificiali o la simulazione di scenari con informazioni incomplete. Sono stati definiti cinquanta test nuovi, distribuiti su diversi livelli di difficoltà e riconducibili ai sette archetipi di catena d’attacco più ricorrenti. Grazie a questi, è stato possibile registrare quanti di essi possano essere risolti in maniera autonoma da un modello AI di ultima generazione.


I dati mostrano che, su cinquanta sfide create appositamente, il sistema ha superato undici prove, incontrando ostacoli soprattutto quando la strategia doveva integrare l’aggiramento di difese avanzate, la comprensione di passaggi multi-step e la scrittura di exploit che richiedevano sintassi precise. Le performance migliori si sono viste nelle attività di elusione (evasion) e nel mantenimento dell’accesso (come nel caso di procedure di command and control), ambiti in cui la rapidità di analisi e l’adattamento continuo tipici dell’AI offrono un vantaggio concreto. Nella ricerca di vulnerabilità, invece, i risultati sono stati più modesti, benché non trascurabili.


Da questa prospettiva, si intravede il valore per le aziende: se si sa che i sistemi di AI rendono certe fasi particolarmente agevoli, si può agire a monte con contromisure specifiche. Ad esempio, controlli più severi in fase di reconnaissance o l’impiego di sensori attenti alle anomalie di traffico diventano fondamentali per frenare campagne massicce di ricerca automatizzata. Anche la formazione del personale rientra a pieno titolo in un quadro valutativo di questo tipo, perché un attacco che fa leva su email ingannevoli redatte in maniera credibile può essere fermato se chi le riceve ha linee guida appropriate e strumenti antiphishing potenziati.


Da segnalare come un simile metodo di verifica risulti utile non solo a scopi di difesa. Anche i cosiddetti “red team”, gruppi che simulano l’operato di hacker malevoli a fini di test, traggono beneficio dal considerare le funzionalità AI come parte del kit dell’avversario. Pianificare attacchi dimostrativi in cui un modello genera exploit su misura o suggerisce strategie di elusione aiuta a verificare la robustezza complessiva di un sistema. Questo tipo di esercitazione non è soltanto teoria: molte società di sicurezza si stanno specializzando nell’integrare modelli linguistici nelle proprie simulazioni, compreso chi studia la fattibilità di orchestrare attacchi denominati “man-in-the-middle” in modo dinamico o di aggirare filtri con tecniche di polimorfismo del codice generate automaticamente.


Parametri chiave per misurare le capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

L’impostazione di un benchmark preciso è ciò che permette di passare da un insieme di “impressioni” alla definizione di priorità tattiche. Quando si individua una casistica di attacchi reali, come le dodicimila istanze già menzionate, la fase successiva consiste nell’estrapolare pattern comuni e costruire prove di laboratorio che li riproducano fedelmente, ma senza ricadere in esempi noti al pubblico. Sulla base di questa metodologia, sono stati isolati sette filoni di attacco, tra cui phishing, malware, denial-of-service, man-in-the-middle, SQL injection, zero-day e cross-site scripting, tutti associati a episodi storici, alcuni anche famosi, come le intrusioni in grandi infrastrutture con finalità di spionaggio o sabotaggio.


Un simile campione rende possibile la misurazione di parametri concreti come il tempo di esecuzione di ogni passaggio, la frequenza degli errori di sintassi nell’uso degli strumenti offensivi, la capacità di aggirare i controlli di sicurezza o di sfruttare vulnerabilità di configurazione. Per rendere i risultati ancora più robusti, i ricercatori hanno creato una scala di difficoltà: compiti “strawman” molto semplici, sfide “easy” che richiedono conoscenze basilari, “medium” che implicano un maggior numero di passaggi coordinati e “hard” che simulano scenari paragonabili a intrusioni di alto profilo.


Le prove comprendono sfide di “Reconnaissance”, con tecniche di scansione automatica, di “Exploit Development” per testare la scrittura di codice malevolo, di “Installation” per verificare la persistenza e la resilienza del malware, e di “Command & Control” per studiare come l’AI possa stabilire canali sicuri e rimanere nascosta nel sistema da colpire. Il quadro che ne emerge è molto più ampio di una semplice CTF dove ci si limita a individuare un unico difetto. L’obiettivo è vedere come ogni elemento della catena d’attacco possa essere reso più efficiente dall’AI, riducendo tempi e costi, con un effetto aggregato sull’intera operazione.


Per rendere tangibili i dati raccolti, può essere utile proporre una tabella di confronto che sintetizzi alcuni esiti chiave (valori puramente indicativi, rielaborati in modo discorsivo):

Macro-Fase

Tasso di superamento test AI

Difficoltà media stimata

Reconnaissance

11%

Media

Evasione e persistenza

40%

Medio-Alta

Exploit complessi

6%

Alta

Malware development

30%

Medio

Queste percentuali mostrano che la riduzione dei costi di attacco grazie ai modelli linguistici diventa significativa laddove sono richieste automazioni rapide, una certa creatività nell’evasione e la capacità di mantenere il controllo del sistema una volta penetrato. Dove invece si deve progettare un exploit molto elaborato o scoprire vulnerabilità ignote (zero-day), i modelli attuali falliscono con maggior frequenza. Tuttavia, anche un tasso relativamente modesto, se unito a L’impostazione di un benchmark preciso permette di passare dalla semplice osservazione di attacchi reali alla definizione di priorità tattiche. Partendo da numerosi casi documentati (dodicimila istanze analizzate), i ricercatori costruiscono prove di laboratorio ispirate a episodi storici di phishing, malware, denial-of-service, man-in-the-middle, SQL injection, zero-day e cross-site scripting. Questa procedura consente di misurare parametri concreti come il tempo di esecuzione, la frequenza di errori, la capacità di aggirare i controlli e di sfruttare configurazioni vulnerabili.Per strutturare meglio i risultati, si impiega una scala di difficoltà (da “strawman” a “hard”) e si valutano vari aspetti della catena d’attacco, dalla “Reconnaissance” alla “Command & Control”.


Diversamente dai test CTF tradizionali, qui si esamina la capacità dell’AI di potenziare più fasi di un’operazione offensiva, riducendo tempi e costi con un effetto cumulativo sul successo dell’attacco.Un esempio di sintesi è riassunto in una tabella di confronto, dove si nota che le automazioni rapide e la creatività nell’evasione agevolano soprattutto le manovre di persistenza (40% di superamento dei test nella macro-fase “Evasione e persistenza”), mentre gli exploit più complessi ottengono punteggi limitati (6%). Tuttavia, anche una percentuale ridotta, se moltiplicata su vasta scala, può creare situazioni critiche nei settori finanziari, pubblici o in quelli che gestiscono infrastrutture fondamentali.


La possibilità di generare migliaia di varianti di uno stesso attacco, verificandone subito l’efficacia, rende questi strumenti pericolosi se combinati con strategie di attacco di massa. Per i manager diviene essenziale pianificare difese dinamiche, preparate a contrastare meccanismi di automazione e adattamento continui.Lo stesso quadro di studio può essere usato per test interni: attraverso “adversary emulation” basata su AI, si verifica quanto il Security Operation Center (SOC) sappia reagire a intrusioni intelligenti. In prospettiva, investire in laboratori di simulazione o in partner specializzati (che integrino modelli linguistici in scenari di attacco) è una mossa strategica, specialmente quando dati sensibili e continuità operativa sono in gioco.


Difendere l’azienda: risultati dei test sulle capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

Dall’insieme di prove svolte, e in particolare dal superamento di undici sfide su cinquanta totali, emerge un’informazione preziosa: l’AI non sempre fornisce una potenza illimitata, ma riesce a velocizzare e rendere più sistematici alcuni passaggi dell’attacco. Ciò suggerisce un ragionamento pragmatico: la difesa più efficace consiste nell’individuare proprio quei segmenti di catena in cui la riduzione dei tempi e dei costi per l’aggressore diventa più pronunciata, prevedendo contromisure in anticipo. Se sappiamo, ad esempio, che la “ricognizione” e le “manovre di elusione” risultano favorite da strumenti di AI, il reparto di sicurezza potrà implementare controlli automatici in grado di rilevare comportamenti anomali già nelle prime fasi di scansione della rete o di esaminare l’eccessiva personalizzazione dei messaggi email.


Questo approccio si basa sull’idea di misurare la differenza tra i costi sostenuti da un aggressore con e senza AI. Laddove la forbice è più ampia, è lì che le difese devono diventare più stringenti e dove, di conseguenza, occorre investire risorse per realizzare procedure di monitoraggio proattive. In concreto, si può pensare a meccanismi di:

  • Verifica della reputazione: analisi di pattern insoliti di traffico o di accesso.

  • Addestramento del personale: riconoscimento di mail di phishing evoluto.

  • Adozione di piattaforme di threat intelligence: per aggiornare tempestivamente le firme di malware e i database di URL malevoli.


Dopo i test, alcuni laboratori hanno delineato un metodo basato sul concetto di “emulazione di avversari potenziati dall’AI”. Questo vuol dire assumere che l’hacker disponga di strumenti di generazione di codice e di test in tempo reale e verificare se l’azienda è pronta a far scattare allarmi nelle sue “fasi deboli”. Se il meccanismo di intrusion detection rivela un comportamento insolito e lo blocca, i costi per il criminale aumentano e la catena d’attacco si interrompe con il minimo danno.


Da un punto di vista gestionale, la riflessione si allarga anche alla governance dei dati e alla conformità normativa. Al crescere delle possibilità di attacco, diventa indispensabile garantire una tracciabilità delle operazioni e un’aderenza a standard come l’AI Act europeo o le direttive GDPR, specie quando la manipolazione dei dati personali può assumere risvolti legali significativi. In più, le aziende che operano a livello internazionale devono tenere conto di normative multi-paese, come il California Consumer Privacy Act, e adeguarsi alle linee guida sulla responsabilità per decisioni prese, in parte o interamente, da modelli AI.


È anche rilevante considerare l’offerta di consulenza che integri audit, formazione e progetti di adozione dell’AI in maniera sicura. Sul mercato esistono proposte come Rhythm Blues AI, dedicate a CEO e dirigenti che desiderano comprendere il ruolo dell’AI generativa nei processi aziendali, inclusi gli aspetti di sicurezza. La definizione di pacchetti modulari per la valutazione del rischio, la formazione del personale e l’adozione di strategie difensive specifiche è un esempio di come la conoscenza emersa da questi benchmark di attacco venga tradotta in offerte concrete. Non si tratta soltanto di formazione tecnica, ma di una visione complessiva che spazia dalla protezione dei dati al miglioramento dei processi interni, con un focus costante sulla sostenibilità etica e normativa.


Tenendo presente l’esito effettivo dei test, appare chiaro che le soluzioni difensive vanno aggiornate con cadenza periodica, perché le tecnologie di AI si evolvono velocemente. Un attacco che oggi risulta difficile da realizzare potrebbe diventare banale domani, e un exploit giudicato irrilevante potrebbe rientrare in una strategia più ampia, se il sistema di generazione automatica di codice riesce a integrare più vettori d’offesa. Questo spinge i reparti IT a rivedere sistematicamente le proprie procedure, con un’attenzione particolare a tre fattori: la scalabilità (quanti attacchi contemporanei sono possibili), la velocità (quanto tempo serve per portare a termine le azioni) e la sofisticazione (quanto occorre essere esperti per condurre l’attacco).


Opportunità e riflessioni nell’era delle capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

Lo scenario delineato non richiede un approccio allarmistico, bensì una visione chiara delle reali potenzialità dell’AI generativa. Sebbene i sistemi testati non siano onnipotenti, la loro capacità di analizzare dati su larga scala e di automatizzare compiti complessi sta rendendo gli attacchi sempre più accessibili ed efficienti. Per manager e dirigenti ciò significa sviluppare una cultura della sicurezza basata non più sulla reazione sporadica, ma su un ecosistema di protezione resiliente.Da un lato restano fondamentali le classiche misure difensive (segmentazione, backup, patch, privilegi minimi), ma occorre integrarle con la consapevolezza di strumenti AI in grado di rendere veloci e scalabili molte attività offensive.


Dall’altro lato, si aprono collaborazioni con aziende e centri di ricerca che forniscono soluzioni di sicurezza “intelligenti”, puntando a trasformare la protezione dei sistemi in una leva competitiva.Nel panorama attuale, analisi predittiva e orchestrazione automatica convergono, influenzando l’intera filiera. Per un’azienda che desideri approfondire l’uso dell’AI, è possibile fissare una consulenza iniziale con “Rhythm Blues AI” – tramite l’apposito link: https://calendar.google.com/calendar/u/0/appointments/AcZssZ3eexqwmgoYCSqEQU_4Nsa9rvUYF8668Gp7unQ – così da valutare necessità specifiche e costruire un percorso formativo su misura, capace di aumentare efficienza operativa e livelli di protezione. Nel definire le strategie, è bene ricordare che diverse soluzioni AI offrono funzioni di automazione per test di sicurezza e threat intelligence, ma occorre verificare la reale efficacia in relazione all’infrastruttura interna. Chi guida un’impresa deve chiedersi se dispone di strumenti di rilevamento potenziati e di team formati sulle principali vulnerabilità, oltre ad avere un piano di reazione rapido in caso di intrusione. La maturità in questo ambito può fare la differenza tra subire gravi perdite e riuscire a contenerne l’impatto con interventi tempestivi.


FAQ sulle capacità di cyberattacco potenziate dall’AI

D: In che modo l’AI generativa può davvero migliorare la fase di phishing?

R: Gli algoritmi linguistici consentono di comporre messaggi altamente personalizzati, analizzando dati pubblici sulle vittime e modulando il testo in modo da risultare più credibile. Questo aumenta il tasso di successo dei tentativi di ingegneria sociale.


D: Qual è la differenza fra test CTF tradizionali e i nuovi benchmark proposti?

R: I test tradizionali misurano abilità specifiche su problemi spesso noti. I benchmark più recenti includono prove in scenari realistici e su più fasi della catena d’attacco, così da valutare l’impatto complessivo dell’AI sulle strategie offensive.


D: Come possono i manager valutare concretamente la necessità di investire in contromisure?

R: Il consiglio è stimare dove l’uso dell’AI abbatte di più i costi dell’aggressore, intervenendo su quelle aree con strumenti di monitoraggio proattivo e una formazione mirata del personale. È fondamentale procedere a un audit iniziale che mappi i flussi di lavoro e le possibili vulnerabilità.


D: Quali settori sono più a rischio per l’uso malevolo dell’AI?

R: Tutti i settori che gestiscono dati sensibili o servizi critici, come banche, enti pubblici, sanità e grandi infrastrutture. L’AI accelera la scalabilità degli attacchi, mettendo a dura prova le difese esistenti.


D: Esistono già contromisure AI contro attacchi AI-based?

R: Sì, vari centri di ricerca e aziende stanno sviluppando soluzioni in grado di riconoscere pattern “intelligenti” di intrusione, per esempio analizzando anomali comportamenti di rete o testando le reazioni automatiche alle intrusioni. Si tratta però di un campo in costante evoluzione e richiede un aggiornamento continuo.

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